"da La Repubblica: Massimo Giannini"
UN LEADER FORTE
"Se facciamo le cose per bene non ci ammazza più nessuno", aveva detto
Bersani all'inizio di questa avventura rischiosa e "strepitosa". Non
tutto è andato alla perfezione, nel ruvido duello per la premiership del
centrosinistra. La rissa sulle regole è stata rancorosa, e a tratti
indecorosa. Ma adesso che ha stravinto, per il segretario del Pd
comincia un'altra vita. La più dura. Quella che lo può portare da Largo
del Nazareno a Palazzo Chigi.
Da queste primarie esce un leader
forte, legittimato dal voto di tre milioni di italiani che credono nella
democrazia e chiedono buona politica. Un leader che ottiene un quasi
plebiscito e prevale nel fuoco di una battaglia finalmente vera, dove al
contrario delle vecchie primarie di Prodi l'esito è stato davvero
incerto e l'offerta è stata davvero plurale.
Da queste primarie
esce un partito nuovo, già cambiato nell'articolazione interna e nella
proiezione esterna. Un partito che si è scopre aperto, scalabile e
comunque contendibile, dove al contrario della tradizione Ds-Pds-Pci non
funzionano più i veti incrociati dalemian-veltroniani né i blocchi
imposti dai comitati centrali. C'è ancora molta strada da compiere, alla
ricerca di una chiara identità politica. Il problema di cosa sia oggi
un Pd nato per fondere le culture del cattolicesimo ex democristiano e
del socialismo ex comunista, e tuttora costretto a federarsi con Sel e
Udc per "unire progressisti e moderati", resta tuttora irrisolto. E sta lì a dimostrare che il progetto è tuttora incompiuto.
Ma
queste primarie rappresentano comunque un cambio di fase. Senza falsi
ecumenismi, senza vuota retorica: il merito è di chi ha vinto, ma anche
di chi ha perso. Bersani ci ha messo la faccia e la passione,
rinunciando a usare lo Statuto come un'arma di autodifesa e a brandire
il vecchio "pugno del partito" contro il giovane sfidante. Renzi ci ha
messo l'ambizione e l'irruenza dei suoi 37 anni, contribuendo al
ricambio del personale e del linguaggio politico. Il pragmatismo
riformatore, di ispirazione socialdemocratica, ha avuto la meglio sul
nuovismo rottamatore, di matrice post-ideologica. Il saldo finale è
positivo, per tutti. E il risultato delle primarie, trasformate
impropriamente in un congresso a cielo aperto, dimostra che dentro lo
stesso partito di una moderna sinistra europea possono convivere anche
idee diverse sul lavoro e sul fisco, sul Medioriente e sui diritti
civili. Purché non siano antitetiche, o tanto vaghe da sconfinare in un
"oltre" dove non sai più chi sei, quando parli di precari e di Fiat, di
esodati e di spread. E purché, dopo la conta, prevalgano la disciplina e
la logica della maggioranza.
Ora per Bersani comincia una
missione nuova. Non si tratta solo di pacificare un Pd spaccato lungo la
faglia renziana del "nuovo" contro il "vecchio". E non si tratta
nemmeno di ricompattare un centrosinistra attraversato dalla frattura
tra "moderatismo" e "radicalità". In gioco, di qui al voto della
primavera 2013, c'è molto di più. C'è il governo del Paese. C'è la sfida
dell'accreditamento in Europa, dove un pezzo di establishment continua a
considerare la sinistra italiana inaffidabile e figlia di un dio
minore. C'è la complessa sfida delle alleanze, perché la mitica
"autosufficienza" del Pd (giustamente inseguita anche da Renzi) è il
sogno di tutti, ma se il Paese o la legge elettorale non ti danno
abbastanza voti per farcela da solo, sei obbligato a dialogare con
Vendola che reclama "profumo di sinistra" e con Casini che pianta i suoi
paletti al centro. C'è il confronto dialettico con il "montismo", e la
definizione di un'Agenda che lo integri e lo superi sui temi della
giustizia sociale e della crescita economica.
C'è soprattutto la
conquista di una maggioranza più larga possibile. Tanto larga da
superare i diversi "tetti" al premio elettorale di cui si discute nella
riforma dell'orribile Porcellum, se mai le disperate follie
berlusconiane la renderanno possibile. Parliamo di una "forchetta" di
consensi che oscilla tra il 38 e il 42,5%. Un risultato non proibitivo,
per un Pd che dovrà essere capace di guidare una coalizione omogenea e
coesa. Ma comunque molto impegnativo per un partito che al suo meglio,
nell'ultimo test del 2008 giocato sulla "vocazione maggioritaria" di
Veltroni, non è andato oltre il 33%. I sondaggi di oggi fotografano il
partito nuovamente a ridosso di quel record. Ma a gonfiare le vele è il
vento di queste primarie, che è naturalmente destinato a calare di qui
alla prossima primavera.
Bersani, adesso, ha il compito di
alimentare quel vento con la politica. Con l'autorevolezza che gli
deriva dalla netta vittoria su Renzi. Ma con la consapevolezza,
paradossale e tuttavia oggettiva, di avere qualche handicap in più
dell'avversario interno che ha appena sconfitto. Gli elettori di
centrosinistra, nonostante il fragore della grancassa rottamatrice che
promanava dal camper del sindaco di Firenze, hanno premiato l'usato
sicuro. Ma di quella campagna resta un'eco che non deve essere dispersa,
anche se chi l'ha condotta rinuncia ai sogni di Palazzo Chigi e rientra
nei ranghi di Palazzo Vecchio. Resta una domanda di cambiamento
profondo, che il Pd non può rinchiudere con un sospiro di sollievo negli
armadi della Storia, insieme al renzismo che in questi mesi quella
domanda l'ha urlata in tv, nei teatri e nelle piazze d'Italia. Un ticket
Bersani-Renzi sembra auspicabile quanto impraticabile. Ma i duellanti
hanno comunque un patto tacito da onorare. Il primo deve continuare
l'opera di modernizzazione del Pd, respingendo ogni tentativo di
restaurazione. Il secondo deve dare il suo contributo, rifiutando ogni
tentazione di rottura o di vendetta.
Secondo l'ultimo sondaggio
di Roberto D'Alimonte pubblicato sul Sole 24 Ore alla vigilia del primo
turno, una coalizione di centrosinistra guidata dal segretario del Pd
vincerebbe le elezioni con il 35% dei voti, mentre se la stessa fosse
guidata da Renzi (ipotesi a questo punto irrealizzabile) otterrebbe il
44%. Bersani, dunque, può fare il pieno di voti a sinistra, mentre un
candidato premier come il sindaco di Firenze avrebbe sfondato il
perimetro tradizionale pescando consensi un po' ovunque. Nel centro
moderato (dove si intruppano troppi Casini e personaggi ancora in cerca
d'autore come Montezemolo o Passera sognano di rubare l'ago della
bilancia al leader dell'Udc). Nella destra sbandata (dove regna il caos e
gli aruspici berlusconiani sono ormai costretti a consultare le
interiora di uccello per venire a capo delle ciclotimie quotidiane del
Sovrano Cavaliere). Nell'area della protesta o dell'astensione (dove
comincia ad affiorare qualche stanchezza per i "vaffa-days" del comico
genovese e si affievolisce il livore qualunquista che vuole l'intera
politica svilita a un "saloon" popolato da "todos caballeros").
In
una logica di ferrea militanza, o comunque di fedele appartenenza,
questi consensi possono non interessare. Ma è chiaro che una proposta di
governo non solo credibile, ma soprattutto durevole, passa anche
attraverso una "pesca" fruttuosa in questo ampio bacino di voti alla
deriva. E non basta certo evocare il parroco o il Papa Buono
(dimenticando scientemente e colpevolmente Gramsci e Berlinguer) per
riempire le reti. Serve la fatica e la pazienza del riformismo. Cioè di
una sinistra compiuta. Consapevole dei suoi valori, che soprattutto
oggi, nel tempo troppo liquido della libertà globale, non possono
prescindere dall'uguaglianza e dalla solidarietà. Una sinistra che sa
includere e sa innovare, ma senza perdere la sua identità. Ora tocca a
Bersani dimostrare che questa sinistra "non l'ammazza più nessuno". Che
questa sinistra esiste, può vincere e - con Monti o senza Monti - può
persino governare l'Italia.
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