Adesso basta. Le offese e le minacce contro la ministra Cécile Kyenge
non sono più sopportabili. Disonorano il nostro paese e necessitano di
una ferma risposta collettiva. E se non ci riescono i vertici dello
Stato a espellere i razzisti dalle istituzioni –come purtroppo ha
confermato l’inamovibilità del vicepresidente del Senato, Roberto
Calderoli, protetto dal suo partito- ciascuno di noi è chiamato a
farsene carico.
Il lancio di banane contro una concittadina dalla
pelle nera, chiamata dal governo a occuparsi dell’integrazione di
milioni di immigrati, ha un nesso inequivocabile con la violenza verbale
di chi l’aveva paragonata a un orango. Altri le hanno augurato di
subire uno stupro. Hanno appeso manichini insanguinati nei luoghi in cui
lei doveva intervenire. Hanno messo in dubbio il suo diritto alla
cittadinanza italiana per il fatto di essere nata in Congo. Insinuano
che la sua laurea in oculistica la renderebbe inadeguata alla funzione
ministeriale. Si lamentano che usufruisca di una scorta di polizia.
Di fronte a queste infamie esprimiamo, certo, ammirazione per il self
control mostrato da Cécile Kyenge; e consideriamo elegante il suo sforzo
di minimizzare nonostante le continue umiliazioni cui viene sottoposta
insieme alla sua famiglia e a tanti altri cittadini che ne condividono
il faticoso percorso di vita. Ma se anche lei minimizza, noi non
possiamo permettercelo. Mi spiace dissentire da Mara Carfagna: per
quanto felice sia la battuta sullo spreco di cibo con cui la ministra ha
avuto la prontezza di liquidare a Cervia quel lancio di banane,
l’ironia non sarà mai grimaldello sufficiente a controbattere un’azione
sistematica d’inciviltà. Illudersi che si tratti solo di pochi “stolti”,
parola di Carfagna, è una falsa consolazione. Per favore, non chiudiamo
gli occhi di fronte all’evidenza: la pazzesca campagna razzista
scatenata contro Kyenge è il condensato di un odio che in Italia si è
diffuso anche usufruendo di una prolungata, non più tollerabile,
legittimazione dall’alto. Gli “stolti” hanno goduto di comprensione, se
non di giustificazione, e così si sono moltiplicati.
Questo razzismo
italico ha radici antiche nelle guerre coloniali e nell’antisemitismo
novecentesco. Ma negli ultimi vent’anni si è rigenerato anche grazie a
un’ostentata, scandalosa tolleranza ai vertici delle istituzioni.
Il
24 luglio scorso, in Francia, il deputato Gilles Bourdouleix si è
dovuto dimettere dal suo partito per aver sostenuto, nel corso della
visita a un campo rom, che “forse Hitler non ne ha uccisi abbastanza”.
Gli stessi giorni, in Italia, Calderoli se l’è cavata con una ramanzina
del suo segretario che nel frattempo convocava una manifestazione
nazionale contro l’immigrazione clandestina, tanto per fare pari e
patta. Perché la xenofobia, più o meno mascherata, viene considerata
un’arma politica redditizia cui sarebbe un peccato rinunciare, anziché
un limite invalicabile della politica democratica. Gli osservatori
internazionali faticano a capacitarsene. Si domandano come sia possibile
che un paese membro dell’Unione Europea non disponga di anticorpi
sufficienti a estromettere dal dibattito pubblico chi nega la pari
dignità fra cittadini in base al luogo di nascita, al colore della
pelle, al credo religioso. Ignorano il retaggio storico di cui la destra
italiana ancora non è riuscita a liberarsi, neanche quando ha
formalmente accettato le regole costituzionali.
Se dunque il
razzismo dall’alto precede e giustifica le pulsioni da stadio dei
lanciatori di banane, tocca a noi, dal basso, organizzare la catena
umana della solidarietà. Giustamente si è già detto, anche da parte del
premier Letta, che le offese rivolte a Cécile Kyenge feriscono l’insieme
della collettività nazionale. Ora si tratta di mettere in pratica
questo sentimento maggioritario della condivisione. La solidarietà a
Kyenge, e con lei a tutte le vittime del razzismo residenti in Italia,
indipendentemente dal passaporto che hanno in tasca, deve manifestarsi
con segni tangibili. Nei giorni scorsi ci ha commosso la foto di gruppo
dell’ex presidente americano George Bush che, insieme a tutto il suo
staff, si è rasato i capelli per immedesimarsi nell’esperienza di un
bambino malato di cancro. L’immedesimazione, appunto. Forse è attraverso
questo sentimento potente che la società civile può intraprendere una
risposta efficace ai lanciatori di banane e ai loro ispiratori.
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