Il riformismo può salvare l'Italia: ecco i punti del cambiamento
CARO direttore, ci sono momenti, nella storia collettiva, in cui la  campana suona per tutti. Il disordine, figlio dei cambiamenti, spaventa e  mette alle corde. Ma costringe anche a fare salti e a riprogettare, a  pensare in grande , a ritrovare profondità. Solo vent'anni fa nelle case  non esistevano i computer ed invece esistevano l'Urss e la Jugoslavia e  , in Italia, la Dc e il Psi. La fabbrica era ancora il centro del ciclo  produttivo e la struttura sociale era solida e "aggregata". E' nata una  nuova dimensione del sapere e del comunicare, la rete, che ha  completamente mutato le dinamiche delle relazioni umane e sociali. Si è  fatta strada , in Occidente, la precarizzazione del lavoro e della vita  di intere generazioni per le quali- come la mano di uno di loro ha  scritto furtiva -" non c'è più il futuro di una volta".
Il mondo  ha dischiuso comunicativamente tutto il "catalogo" delle sue  possibilità, la ricchezza e i viaggi e il successo e la felicità  delimitata a questa dimensione, e contemporaneamente ha negato a una  intera generazione la possibilità di raggiungere persino la minima  sicurezza sociale. Ci si può meravigliare poi se dei ragazzi della  periferia di Londra pensino che una rivolta non serva a "scalare il  cielo" di una società migliore per tutti , a cominciare dagli altri, ma a  rubare un televisore al plasma per vedersi meglio il Chelsea? ...
Il mondo cambia, mutano modi di pensare e di agire, ma    la politica arranca. Ha rinunciato a grandi progetti, se non alla loro  declamazione, ed è portata a cercare solo consenso facile e immediato.  Prevale , ovunque, una parola breve e facile: no. E' una parola che ha  avuto nella storia dei significati elevati: il no allo schiavismo o al  razzismo, il no alla discriminazione contro le donne o quello dei pochi,  coraggiosi, docenti italiani che si sottrassero al giuramento di  fedeltà al fascismo e risposero, come Bartleby lo scrivano ,"Preferirei  di no". 
Ma il no è anche la parola preferita dei conservatori.  Riflettevo sulla contemporanea esplosione in molte parti del mondo di  proteste giovanili e studentesche, dal Cile al Nord Africa alla Spagna.  E' inevitabile ripensare al sessantotto. Ma quel movimento voleva  cambiare radicalmente le cose e la sua spinta originale, carica di  utopia e di energia civile, produsse , ad un tempo, mutamenti  straordinari dei costumi e spazi nuovi di libertà e , con la deriva  delle sue ideologie autoritarie, la barbarie del terrorismo. 
La  differenza è che oggi prevalgono movimenti che sembrano fare del no la  ragione stessa della propria identità. Il no si diffonde più velocemente  e facilmente dei si, è rassicurante e identitario. Ma finisce col  concorrere al caos e ai pericoli che il caos genera. Perché la "natura "  stessa dei processi tecnologici, la loro velocità, richiede costanti  aggiornamenti e sistemazioni. E' una situazione inedita, nella storia  dell'Umanità. E si comincia a palesare, nel cuore di una recessione  giustamente paragonata su questo giornale a quella del 1937, una  alternativa che può diventare drammatica: o riformismo radicale o un  nuovo autoritarismo.
Destra e sinistra non sono due invenzioni,  due collocazioni geografiche. Sono un insieme di sensibilità e di  aspirazioni, sono coscienza e gerarchia delle ingiustizie, e , almeno  nella situazione italiana, concezione del potere e cultura delle regole.  In fondo la drammatica crisi americana non è servita a ricordarci  proprio questo? La cultura democratica e i tea party non sono due  variabili sfumate di un pensiero unico, sono due radicali letture della  società e dei suoi valori. Attenzione, radicalmente diverse, ma  egualmente legittime. Perché va ritornando, uno dei lasciti negativi del  sessantotto, una certa intolleranza per le opinioni diverse dalle  proprie. La rete è un meraviglioso laboratorio di legami e di saperi ,  uno strepitoso strumento di giustizia sociale conoscitiva ma , nel suo  discorso pubblico, alimenta semplificazioni e il suo stesso linguaggio  formale , pollice in su o in giù, rimanda a banalizzazioni esasperate,  ad un mondo di tifosi in cui lo spazio per la razionalizzazione e la  costruzione si fa più esile. Tutto tende ad essere corto, emotivo,  estremo. Proprio quando avremmo più necessità di pensieri lunghi , di  progetti grandi, di tempo per realizzarli. 
Il riformismo è , ai  miei occhi, il bisogno assoluto di questo tempo di caos. Il riformismo  che non è moderatismo , che si alimenta della curiosità del futuro e non  della nostalgia del passato, il riformismo che parla a chi è più  giovane, che non accetta come un sentenza inappellabile l'idea che il  perimetro angusto del suo lavoro sia la difesa di ciò che esiste. Che ha  il coraggio di dire che ora i più deboli devono avere qualcosa e i più  forti debbono cedere qualcosa. Un patto nazionale per ridare al nostro  paese, stanco e sfiduciato, il desiderio di ricominciare ad investire, a  creare, a crescere, a considerare l'Italia come il miglior posto del  mondo in cui vivere e lavorare.
 Ma occorre proporre al paese una  autentica rivoluzione democratica. Il cui primo passo è la riduzione del  macigno del debito pubblico . A gennaio al Lingotto dissi che una volta  fatto un piano industriale della pubblica amministrazione che collochi  al punto di maggiore efficienza il benchmarking della spesa, una volta  snellita la elefantiaca macchina politico amministrativa, una volta  valorizzato il patrimonio pubblico e raggiunto il pareggio di bilancio  strutturale non ci sarebbe nulla di male se il potere pubblico, forte  della sua autoriforma, dicesse a quel dieci per cento della popolazione  che detiene il 48% del patrimonio privato : "Il debito pubblico è un  cancro che divora il presente e il futuro del nostro paese, per  abbatterlo più rapidamente ho bisogno del vostro aiuto: vi chiedo un  contributo per tre anni per far scendere il debito in modo rapido e  liberare risorse per la crescita". E aggiunsi , citando Olof Palme, "Noi  democratici non siamo contro la ricchezza ma contro la povertà. La  ricchezza , per noi, non è una colpa da espiare, ma un legittimo  obiettivo da perseguire. Ma la ricchezza non può non essere anche una  responsabilità da esercitare". Anche nel Pd ci fu chi obiettò ma io  rimango dell'idea che, come fu fatto con l'Eurotassa, un governo  autorevole, il che esclude Berlusconi, avrebbe il dovere di proporsi di  portare all'ottanta per cento il debito entro il 2020.
E poi : un  nuovo patto del lavoro che, secondo la proposta Ichino, giustizi la  precarietà e elevi la produttività, una riforma fiscale che contrasti  l'evasione in un contesto di "pagare meno, pagare tutti". La rinuncia  all'idea che lo Stato debba fare tutto e la fiducia nelle risorse  sociali diffuse da attivare in un contesto di sussidiarietà, la fine  della occupazione partitica della Rai e delle aziende locali, l'una  affidata a meccanismi tipo Bankitalia e le altre ad un mercato regolato e  orientato a valorizzare forze produttive innovative. Il dimezzamento da  subito dei parlamentari e un sistema elettorale bipolare e uninominale ,  lo snellimento radicale di tutta la diffusa "professionalizzazione"  della politica oggi smisuratamente più grande che nel passato. Partiti  più lievi possono ritrovare il senso della loro passione ed essere più  aperti, come da progetto originale del Pd. E poi la fine delle  scandalose retribuzioni e liquidazioni di manager pubblici e privati, la  lotta contro ogni forma di corruzione e contro quei poteri criminali  che irrompono tra le maglie di una crisi economica forte e di uno Stato  debole. Giustizia più rapida, meno carcere, diritto di voto agli  immigrati per le amministrative, norme di sostegno al lavoro delle donne  e alle politiche familiari. Scelta netta per gli Stati Uniti d'Europa e  l'elezione diretta del loro Presidente , più forti politiche comuni di  difesa e di bilancio, a cominciare dagli eurobond. Diritti dei gay , a  cominciare dalle unioni civili, e scelta netta per le energie  rinnovabili, defiscalizzazione dei contributi privati per ricerca e  cultura e investimento pubblico forte e selettivo su scuola e  università. E poi individuazione delle dieci opere strutturali  fondamentali per il paese e affidamento del potere di realizzazione a  persone oneste e stimate che possano definire tempi certi e regole per  la loro realizzazione. Non manovre ogni sei mesi, ma riforme. Per  spezzare il più pericoloso elemento di continuità della storia italiana:  l'immobilismo rissoso.
Per me questo, e altro, è il riformismo  dei democratici. Quello che questo paese non ha conosciuto in tutta la  sua storia. Salvo la ricostruzione e il primo centrosinistra e la breve  primavera del governo Prodi, troppo autonomo per essere tollerato. Anche  a sinistra. Perché anche a sinistra si è fatta strada la più pericolosa  delle malattie possibili: la confusione di mezzi e fini. Vincere le  elezioni per me non è un fine, è un mezzo. Se non si è in grado di  operare svolte radicali si finisce col contribuire al declino di un  paese. L'Italia è stremata da quindici anni di Berlusconismo, di totale  assenza di progetto e gestione, di riduzione della cosa pubblica a cosa  privata. Per questo oggi il centrosinistra deve saper assicurare non  solo un nuovo governo ma una svolta riformista.
Il riformismo non  è una passeggiata di salute. E' la più dura e rischiosa sfida che si  possa ingaggiare. E' l'idea di armonizzare crescita e giustizia sociale,  diritti e qualità della vita delle persone, democrazia e legalità. Per  questo servono schieramenti non per vincere le elezioni ma per cambiare  il paese. Non c'è più tempo per furbizie e personalismi. Il riformismo è  coraggio, non conformismo, anche il coraggio di dire parole scomode.  Non devo riandare a De Gasperi o al Partito d'Azione. Penso al partito  nel quale sono cresciuto, alle persone da cui ho imparato a fare  politica. Il Pci, per me che non ero ideologicamente comunista, era il  "paese pulito nel paese sporco". Forse non era proprio così, ma così la  pensava, non dimentichiamolo, un italiano su tre. Quella storia è finita  e, grazie al coraggio di Achille Occhetto, non sotto le macerie. Ma  anche nella durezza di quel tempo Giuseppe Di Vittorio sapeva restare da  solo, nella direzione del partito che discuteva i fatti del '56, a  difendere con dignità le ragioni degli insorti di Ungheria e Berlinguer  sapeva proporre il compromesso storico o dire, tra gli insulti di chi lo  marchiava di tradimento, che si viveva più sicuri sotto l'ombrello  della Nato che sotto quello del patto di Varsavia e Luciano Lama faceva  della Cgil il sindacato dell'unità dei lavoratori e Bruno Trentin  firmava l'accordo sulla politica dei redditi e poi si dimetteva. E, lo  si ricordi, Giorgio Napolitano insegnava il valore dell'ancoraggio  europeo della sinistra. Tutti hanno incontrato resistenze e si sono  scontrati contro il muro dei No e contro i conservatorismi facili.
Perché  la politica è, nella sua forma più alta, la convinzione in un progetto,  in un disegno. Non la popolarità di un momento, non il potere come  fine. Ma il rischio racchiuso nella più alta forma di missione civile e  di sfida intellettuale: il cambiamento radicale del proprio paese. Che  oggi, per l'Italia, coincide con la sua stessa salvezza.

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