Nel secolo scorso si scendeva in piazza per difendere i propri diritti, adesso non c'è più nulla da difendere. Ma c'è da rifondare il patto sociale sul quale si basa la società. Dopo anni di di mero spettacolo, adesso la gente chiede competenza e concretezza
(da La Repubblica, Curzio Maltese)
Con tutto l'interesse e il rispetto per gli occupanti di Wall Street o gli indignatos spagnoli, nelle società occidentali non esiste un fenomeno paragonabile ai movimenti italiani, per dimensioni, frequenza, complessità e durata. Negli altri paesi la partecipazione ai movimenti è confinata in ogni caso a settori più o meno illuminati della popolazione. In Italia ha coinvolto decine di milioni di cittadini. Questo rende il nostro paese uno straordinario laboratorio politico e forse il principale laboratorio del fallimento della politica. La professione politica, come l'abbiamo conosciuta per tutto il Novecento, nel bene e nel male, non esiste più. E' entrata in una crisi irreversibile con la caduta delle divisioni ideologiche. In Italia, più che altrove, si è ridotta a grande show elettorale. Qui, nella battaglia per il consenso, sembra ritrovare il senso e la missione perduti. Prima e dopo, la politica vive nell'impotenza assoluta, in attesa della prossima campagna elettorale. In Italia abbiamo vissuto una campagna elettorale lunga vent'anni, durante la quale chi era al governo non si è mai assunto la responsabilità delle scelte fatte davanti ai cittadini, reclamando ogni volta l'alibi dei vincoli esterni - l'Europa, la crisi internazionale, i mercati, la speculazione finanziaria - o dei vincoli interni, per esempio i conflitti nella coalizione. Nel vuoto di decisione e di scelte, quindi tout court di politica, sono avanzati i movimenti.
L'evoluzione del fenomeno negli anni è significativa. I movimenti dei primi anni Novanta erano di pura protesta, agivano in difesa di diritti acquisiti, adottavano strumenti di lotta e linguaggi resistenziali. Quelli di oggi sono movimenti propositivi, producono soluzioni nuove, in forma di leggi e riforme. Forse perché non c'è ormai quasi nulla da difendere. Le donne, i precari, gli studenti non scendono in piazza per difendere diritti che non hanno più o non hanno mai avuto. Che cosa è rimasto da difendere infatti nella condizione femminile in Italia, nel precariato giovanile o nel disastro delle università? Nulla. Si tratta al contrario di rifondare il patto sociale in modo da non escludere pezzi importanti di cittadinanza. I nuovi movimenti si muovono in quella prateria sconfinata che la mancanza di progettualità politica consegna alla società civile.
E' insensato bollare tutto questo come antipolitica. Non è affatto vero che i movimenti non abbiano cercato in questi anni un dialogo con i partiti. La verità è che non l'hanno trovato. Non per motivi ideologici, per esempio perché sono "antipolitici", ma per ragioni banalmente pratiche. I professionisti della politica, e ormai anche quelli del sindacato, divenuti tecnici del consenso, non sono chiamati più a conoscere i problemi reali, ma soltanto a fingere di conoscerli per recitare una parte convincente nei talk show. Ma fuori dal rito ignorante della tele politica, l'incompetenza degli esponenti politici, appena si sfiora un problema reale, rende difficile e perfino frustrante il confronto. Ho assistito per anni a dibattiti pubblici di esponenti dei movimenti con leader, ministri e sottosegretari che palesemente non conoscevano nulla delle materie sulle quali erano chiamati a legiferare, ignoravano le stesse norme approvate in Parlamento, per non parlare di quelle in vigore nel resto d'Europa, finendo per improvvisare ogni volta cifre, dati e slogan fondati sul nulla per uscire dall'imbarazzo. Molto prima che Maria Stella Gelmini rivelasse al mondo la propria sbalorditiva insipienza con la storia del tunnel per i neutrini, ricordo l'espressione fra l'incredulo e il disperato dipinta sui volti dei professori e studenti della Sapienza all'uscita dall'incontro con l'ex ministro.
Si tratta del resto di un'esperienza facile da comprendere perfino guardando i nostri censurati talk show. Basta che il conduttore dia la parola per qualche minuto a uno studente o a un ricercatore, a un No-Tav, a un precario, un operaio o un volontario dei comitati referendari, perché sullo schermo passino più informazioni di quanto ne contengano due ore di rissa in studio fra celebrati leader nazionali. Infatti in genere l'intervento del "popolo" è confinato in brevissime finestre, per poi tornare al consueto teatrino del pressapochismo politico, allegramente svincolato da ogni vincolo di verità, precisione ed esperienza.
Il tratto comune dei movimenti, assai differenti negli obiettivi, è stato proprio la domanda di competenza che in qualche modo ha preparato il terreno all'avvento dei tecnici al governo. Con il nuovo corso inaugurato dal governo Monti, si apre dunque anche un'altra stagione per i movimenti. La possibilità di un confronto vero, sulle soluzioni concrete agli antichi e ostinati problemi nazionali. Per un paradosso, il grande ritorno alla politica.
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