(da La Repubblica-L'Espresso - Inchieste)
ROMA - In quello che per dodici anni è stato il negozio
di informatica di Giulio Credazzi, a Roma, non c'è solo una saracinesca
chiusa, ce ne sono tre. Perché era un negozio grande, e con molti
dipendenti. A un certo punto, però, le cose non sono andate più bene:
"Prima è arrivato il centro commerciale, che ha avuto un impatto
devastante sulla nostra attività, e così abbiamo cominciato a perdere il
10% l'anno. A un certo punto si è aggiunta la crisi: le perdite si sono
sommate, siamo passati dal 30 al 40 al 50%. Per giunta la proprietaria
ci ha chiesto un aumento, e allora ho deciso di chiudere". Adesso
Credazzi si occupa di servizi informatici, a domicilio: ripara computer,
fornisce software, pezzi di ricambio. Il suo negozio è rimasto chiuso: a
distanza di due anni, non lo vuole nessuno. I clienti però non mancano
e, non essendoci più le spese del negozio, i margini di guadagno sono
tornati accettabili.
Anche Roberto Carletti, romano, dopo il
fallimento del suo negozio ha cambiato filosofia: "Quando avevo il
negozio, aspettavo i clienti. Adesso vado da loro". Carletti era
approdato al commercio dopo aver fatto altri lavori: la sua era
un'aspirazione coltivata da tanto tempo. Gli è andata male: "Vendevo
articoli per la casa, ma in negozio c'era sempre poca gente, poco
movimento, poco incasso; l'affitto correva, la merce andava
riacquistata, perché era un'attività nella quale bisognava avere sempre
tutto: il gioco non valeva la candela". Allora ha chiuso, e a quel punto
ha colto al volo un'opportunità offerta dalla Vorwerk Folletto: si è
reinventato venditore a domicilio, e adesso, dopo qualche anno, è
capovendita, ha alle sue dipendenze sei venditori, ed è entusiasta del
suo lavoro.
Invece Patrizia Lattuada è passata alle vendite a
domicilio più per motivi di famiglia che di tipo economico: "Ho lavorato
per vent'anni in agenzie di viaggio tradizionali, però con il secondo
figlio è diventato tutto più difficile, perché abito in provincia di
Cremona e dovevo andare ogni giorno a Milano. Allora ho risposto a un
annuncio di CartOrange, e ho cambiato modo di lavorare. Vendere
pacchetti viaggio a domicilio mi dà la possibilità di stare di più con i
miei figli, non ho orari fissi, e poi è più appagante, perché dai al
cliente la tua collaborazione ben al di là degli orari di agenzia: anche
il sabato, la domenica, dopo cena. E ho molto più tempo per la
formazione".
Giulio, Roberto e Patrizia non sono i soli a essere
passati dal negozio alle vendite a domicilio. Infatti se i negozi
chiudono, spesso per non riaprire più, e i fallimenti aumentano, le
vendite a domicilio crescono dal 2006 con una media del 3% all'anno, e
hanno superato indenni i tre anni della crisi nella quale invece si sono
persi 25mila negozi (dati Confesercenti). L'ultimo bilancio delle
aziende associate Univendita (da poco entrata in Confcommercio) è stato
di 823 milioni di euro, mentre per l'anno in corso si prevede di
superare il miliardo. La vendita diretta a domicilio certo è ancora un
fenomeno di dimensioni modeste, conta poco più dell'1% del commercio in
Italia. Ma se continua così guadagnerà sempre più spazio: "Rispetto al
passato sono cambiati i venditori, si punta di più alla formazione,
cercando di evitare la pressione fastidiosa sul cliente", dice Luca
Pozzoli, presidente di Univendita. I venditori a domicilio che
provengono dal commercio tradizionale, sostiene Pozzoli, hanno anche più
chance degli altri nella possibilità di costruire un buon rapporto con i
potenziali clienti: "Abbiamo ampia esperienza del fatto che una persona
che arriva dal commercio il contatto con la clientela sa già come
tenerlo, quindi ha maggiori possibilità di riuscita".
"Quando un
commerciante fallisce non c'è nessun tipo di supporto sociale - ricorda
Massimo Zanon, presidente di Confcommercio Veneto e Venezia -. Per
ricollocarsi, è determinante l'età: se è uno che ha una professionalità,
può ritrovare uno spazio nello stesso settore, come dipendente. Il 2/3%
si lancia nel commercio ambulante, il 3/4% nella vendita diretta,
attività nella quale possono essere favoriti perché hanno una buona
capacità dialettica, e poi si tratta sempre di un lavoro
imprenditoriale". Il commercio ambulante, che assorbe una quota piccola
ma non trascurabile di ex negozianti, viaggia verso una quota di mercato
dell'11%. Gli ambulanti, con i loro 170.845 esercizi, coprivano infatti
alla fine del 2010 il 10,5% della complessiva distribuzione
commerciale, con un aumento del 20% messo a segno tra il 2000 e il 2010.
Il giro d'affari del comparto supera i 25 miliardi di euro. "Il
comparto è in crescita intanto perché vi approdano molte persone,
espulse dal mercato del lavoro - spiega Adriano Ciolli, coordinatore
nazionale di Anva, l'associazione dei venditori ambulanti che fa capo a
Confesercenti - e poi perché l'investimento di partenza che si
richiede è modesto, e questo facilita l'avvio di nuove attività".
Però
non tutti i commercianti che sono costretti a chiudere il loro negozio
hanno la possibilità di "reinventarsi" come venditori a domicilio, o
ambulanti. "Da noi il commercio ambulante ormai è prerogativa dei cinesi
- dice Salvatore Politino, direttore di Confesercenti Catania - e la
vendita diretta praticamente non esiste. Chi chiude un negozio, se ci
riesce, cerca di essere assorbito come dipendente dalla grande
distribuzione". Molti dei commercianti che chiudono, osserva Renato
Mattioni, direttore della Camera di Commercio di Monza e della Brianza,
finiscono per rimanere fuori da ogni prospettiva, perché già l'apertura
di un negozio era stato per loro l'approdo all'ultima spiaggia: "Un
terzo delle imprese nascono più per disperazione che per convinzione: si
tratta di cassintegrati, precari che fanno l'ultimo tentativo per
trovarsi un'occupazione, e che spesso falliscono per mancanza di
adeguata preparazione. Per loro è molto difficile ricollocarsi". Lo
conferma Andrea Nardini, direttore di Confcommercio Toscana: "Il
terziario negli ultimi anni è stato un forte bacino di assorbimento per i
lavoratori espulsi dal sistema produttivo".
Per cercare di
tirare avanti, i negozianti sono comunque costretti a mettere in atto
delle strategie di sopravvivenza. Per i negozi di abbigliamento, spiega
Angelo Sabia, titolare di un negozi di calzature a Rivoli (Torino), la
soluzione nella maggior parte dei casi si chiama outlet: "Nonostante le
vendite calino, i fornitori ci costringono ad acquistare più merce e ad
acquistarla sempre con maggiore anticipo. E allora, chi può apre un
outlet, e lì vende le rimanenze con sconti che possono arrivare anche al
70%". Ci sono poi negozianti che decidono per non morire di allearsi
con il "nemico", chiudendo il negozio di quartiere e aprendone uno in un
centro commerciale. Ma è una strategia che ultimamente dà poche
soddisfazioni: "Alcuni di noi, quando aprì Porta di Roma - racconta
Andrea Venanzi, presidente dell'associazione commercianti di via Ojetti,
una delle principali strade commerciali del quarto municipio di Roma -
pensarono di poterla cogliere come opportunità, aprendo all'interno del
centro commerciale un negozio di calze da donna e uno di abbigliamento
bambino. Ma i costi sono spaventosi, si possono pagare fino a 8500 euro
al mese d'affitto, e poi ci sono gli orari prolungati, per cui serve più
personale. E con la crisi le vendite sono calate, ormai non si vende
molto, neanche nei centri commerciali. Nel giro di poco tempo hanno
dovuto chiudere entrambi, e hanno riaperto un negozio di quartiere".
"Qui,
al centro commerciale di Mestre - racconta Doriano Calzavara,
presidente Ascom-Confcommercio di Mestre - eravamo all'apertura 30
aziende familiari su 70 negozi. L'idea era di coinvolgere anche i
commercianti del posto. Ma ormai hanno chiuso quasi tutti, abbiamo
resistito in sette. Sono rimaste solo le grandi catene in franchising:
Footlocker, Geox, Yamamay, Golden Lady... Ci hanno mangiati vivi. E' per
questo che i centri commerciali sono tutti uguali. Per un negozio a
gestione familiare i costi in un centro commerciale sono il 45% in più,
ma i prezzi sono diminuiti dal 2008, siamo stati costretti a ridurli in
media del 4% l'anno, quindi adesso il calo è tra il 16 e il 20%".
Tutte
le strategie di vendita passano comunque per gli sconti. I negozianti
del quarto municipio di Roma hanno deciso di offrirne uno collettivo
agli abitanti del quartiere, per cercare di equilibrare il fortissimo
potere di attrazione esercitato dal centro commerciale Porta di Roma,
che in pochi anni ha svuotato le botteghe di vicinato. Per ottenere il
10% su qualsiasi prodotto basta mostrare la "Card Sconto più", inviata
in questi giorni dalla presidenza del municipio a 110mila famiglie. La
strategia dello sconto è comunque generalizzata. Le cronache di inizio
dicembre parlano di saldi anticipati, i cartelli sono dappertutto. Per i
negozianti è l'ultima spiaggia: perdere parte del guadagno sperando
però di attirare grazie ai prezzi convenienti clienti sempre più
svogliati e spaventati dalla crisi economica.
Nessun commento:
Posta un commento