giovedì 5 gennaio 2012

LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO


REGOLE uniche per le pensioni, regole uniche anche nel mercato del lavoro. È l'obiettivo che si è dato il governo Monti. Dopo quindici anni di flessibilità spinta che ha portato a oltre quaranta tipologie contrattuali (dal lavoro in affitto fino al job on call, una vera giungla contrattuale) e che ci lascia, però, un tasso di occupazione giovanile tra i più bassi d'Europa (circa il 47 per cento contro una media Ue che viaggia intorno al 60 per cento), si è deciso di voltare pagina.  Non un ritorno al passato, ormai improponibile nella competizione globale, ma il tentativo di chiudere la lunga stagione del dualismo nel mercato del lavoro: da una parte i protetti dalle leggi e dai contratti, dall'altra i precari quasi senza leggi e diritti contrattuali.
Le proposte progressiste
Nuovi ammortizzatori sociali, dunque, e nuove regole (omogenee) nel mercato del lavoro, due facce della stessa medaglia.
Le soluzioni in campo infatti, quelle con cui il governo non potrà non fare i conti, sono nate a sinistra e presentate in Parlamento dalla sinistra. C'è la proposta del senatore giuslavorista Pietro Ichino che ha l'ambizione di riscrivere il diritto del lavoro; c'è il "contratto unico" a protezione crescente, nato nelle aule universitarie (i veri ispiratori sono gli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi) e "adottato" dal senatore Paolo Nerozzi (ex dirigente della Cgil); e c'è anche il "contratto unico di inserimento formativo" firmato da un'ottantina di parlamentari democratici (tra i quali l'ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano), una "terza via" partita in sordina rispetto alle altre due ma, alla vigilia del confronto tra governo e parti sociali, con qualche chance in più di arrivare al traguardo.
Le differenze, il nodo dell'art.18
Ci sono differenze non di poco conto tra i tre modelli a confronto, culture diverse e anche costi diversi a carico delle imprese. Ichino propone che le nuove assunzioni siano tutte a tempo indeterminato. Ma che sia anche possibile il licenziamento individuale per motivi economici, tecnici o organizzativi. Senza più il reintegro nel posto del lavoro, nel caso di licenziamento senza giusta causa (come prevede l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), bensì con un'indennità economica di tre anni a carico in buona parte dell'impresa (da qui la sostanziale malcelata ostilità della Confindustria) pari al 90 per cento dell'ultima retribuzione per il primo anno, e poi all'80 e al 70 per cento.
L'idea è quella di rendere il datore di lavoro direttamente responsabile nel progetto di ricollocazione del lavoratore licenziato. Nulla di simile c'è nella proposta Boeri e nel disegno di legge di gran parte del Pd. Entrambi puntano a una graduale stabilizzazione del rapporto di lavoro. Fino a tre anni di prova (l'ingresso nel lavoro), poi il contratto a tempo indeterminato.
Nessun intento di modificare o attenuare lo spettro d'azione dell'articolo 18, mentre c'è l'idea (ne aveva accennato, seppur a titolo personale, la Fornero) di un salario minimo. Un tragitto che sembra aver ispirato le parole di Monti nella conferenza stampa di fine anno sul contrasto alla precarietà, ma anche la formula del "contratto prevalente" che si sta studiando al ministro del Lavoro.

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