"La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore".
PARLANDO dell'austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali
necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale
europea Mario Draghi è ricorso a un'immagine forte. In un'intervista al Wall
Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un
Nuovo Mondo. L'immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa
più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate
bene.
Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di
vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era
convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come
"vecchie scope", se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si
può dire oggi dell'Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re:
la corona non l'ha persa; non l'ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero
europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano
contro l'impotente potenza dei nazionalismi, letale per l'Unione. Proviamo
dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a
tutti noi.
È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri
imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite:
"All'esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni
marciume", di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il
Welfare: cioè
quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del
lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il '45. "Lo Stato
sociale è morto", annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se
non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani
costretti alla flessibilità, dall'altra i protetti con salari basati
sull'anzianità e non sulla produttività.
Naturalmente c'è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato
sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma
perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto
che, essendo un patrimonio essenziale dell'Europa, va riorganizzato, ma non
ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile
nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world
di Huxley - ricordiamocelo - è una distopia, un'utopia tutta negativa.
In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un
lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato
esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di
dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si
sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono,
sostituite dal pulito, clinico eufemismo: "Ci sarà una contrazione".
Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: "Non
c'è alternativa". Anche quest'affermazione è leggermente stupefacente,
perché l'univoca ideologia inglese e americana degli anni '80 è finita
infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s'è infranto nel
2007-2008. Oppure no?
Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta.
Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni '30, e in due
guerre. La prima cosa che scoprirono fu l'unione europea, il No alle rovinose
sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla
povertà che aveva colpito le genti negli anni '30, gettandole nelle dittature e
nelle guerre. Si tratta di due polizze d'assicurazione, offerte ai popoli per
far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c'è un nesso. Basti ricordare
che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante
dell'Europa federale.
Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o
tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare
che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che
Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all'inizio da un
liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra,
metterlo in pratica. Come disse Churchill, l'aspirazione era di
"proteggere l'individuo dalla culla alla tomba".
Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle
persone "che avevano attraversato una crisi economica e sociale
gravissima", i governanti dissero in sostanza: "Ora vi chiediamo di
farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il
posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni" (Foucault, Nascita della
biopolitica). Cinque erano i "giganti" che Beveridge riteneva nemici
della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio.
Tutti insieme andavano abbattuti.
Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A
sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il
disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia.
Sono la non-attuazione dell'austerità, l'"immediata reazione
negativa" dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio,
e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle
italiane. L'unico gigante che impaura è l'ozio, la pigrizia figlia del Welfare.
L'essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul
sospetto non si edificano polizze né patti.
Per la verità anche Foucault denunciò la "coppia infernale sicurezza
sociale-dipendenza", negli anni '80. Di fronte a una "domanda
infinita", s'ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La
sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a
processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del
mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e
benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un'ennesima
utopia, lo si era visto negli anni '30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli
anni di presa di coscienza sull'orlo del disastro.
È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel
che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che
mentre l'Europa dimentica, l'America tenti - assai timidamente con Obama - di
resuscitare Roosevelt e il New Deal.
Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha
l'impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un
esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes,
Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e
sfrondato di Stato sociale.
È la tesi di Michael Hudson, economista dell'Università di Missouri a
Kansas City: "La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per
vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e
privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per
vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e
muore".
Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare
l'illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I
patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che
fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo
stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale
(meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale
offerta in pegno nel buio della guerra.
Pensano di poter fare l'Europa così, sognando di sospendere lo Stato
sociale e l'agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non
riusciranno, perché un'Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non
ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.
Nessun commento:
Posta un commento