Ieri il Palazzo ha votato le misure anticrisi imposte dalla Troika per evitare il default. Protestano
in 100mila. I provvedimenti rischiano di far scivolare i più poveri in uno stato di totale indigenza.
Ma i violenti scontri di Atene non preoccupano le Borse che invece festeggiano il via libera del Parlamento greco alle nuove misure di austerity approvate nella notte .
C'è attesa, adesso, per la convocazione dell'Eurogruppo e il via libera
al maxi prestito da 130 miliardi di euro che dovrebbe garantire il
salvataggio del Paese.
Con il voto del parlamento, la Grecia si impegna dunque a tagliare del
22% il salario minimo e a licenziare nello spazio di un anno 15 mila
dipendenti pubblici con l’obiettivo di tagliare circa 150 mila impieghi
statali entro il 2015. Sì anche ai tagli nel settore della difesa (300
milioni che compenseranno il mancato intervento sulle pensioni minime)
alla riduzione del 30% dei costi del sistema sanitario. Il programma
prevede poi una massiccia campagna di privatizzazione degli assets
statali per un totale di 50 miliardi di euro da completare entro tre
anni. A giugno, infine, l’esecutivo ellenico dovrà stilare un nuovo
piano di austerità da 10 miliardi da realizzare tra il 2013 e il 2015.
La ricetta, insomma, è davvero indigesta. Per i greci, già spossati dai
precedenti tagli e dalla spirale della recessione, si preannuncia un
futuro ancora peggiore. La classe media rischia di scomparire scivolando
progressivamente verso la povertà. I ceti più poveri rischiano al
contempo di sperimentare situazioni di miseria al limite dell’emergenza
umanitaria. Non è difficile capire le ragioni dei manifestanti. Ma è
altrettanto semplice comprendere quelle di un esecutivo ormai pressoché
commissariato dall’Ue, dai creditori e dalla realtà dei fatti. Il
ministro delle finanze Evangelos Venizelos ha
sintetizzato la misura del dramma in poche pesantissime parole: “La
scelta – ha dichiarato – non è tra i sacrifici e non fare sacrifici, ma
tra i sacrifici e qualcosa di inimmaginabile”. Difficile dargli torto.
L’alternativa all’austerity, e quindi agli aiuti esterni che ad essa
sono legati, si chiama default. Non quello selettivo già in programma
(che costerà ai creditori almeno il 70% del valore nominale dei titoli),
ovviamente, ma quello conclamato. Una bancarotta disordinata che
scatterebbe già il prossimo 20 marzo, alla scadenza di quei 14,5
miliardi di bond che la Grecia non è oggi in grado di liquidare. E che,
ovviamente, imporrebbe l’addio all’euro con tutte le sue ovvie
conseguenze. Reintrodotta in queste circostanze, la vecchia dracma si
svaluterebbe in un attimo facendo esplodere l’inflazione. Il sistema
bancario nazionale, primo creditore dello Stato, andrebbe incontro al
collasso congelando i risparmi dei cittadini. La valuta estera
abbandonerebbe il Paese e lo Stato, incapace di finanziarsi sui mercati
attraverso nuove emissioni sarebbe costretto a stampare una valanga di
denaro alimentando il circolo dell’inflazione. Di fatto, un disastro su
tutta la linea.
Insomma, in questo colossale dramma nazionale la ragione sembra stare da
più parti. Non hanno torto i cittadini greci che protestano contro i
provvedimenti del governo, non ha torto il governo nel riconoscere nei
tagli l’unica alternativa percorribile. E in fondo, a dirla tutta, non
hanno nemmeno torto gli investitori stranieri che si preparano a perdere
70 centesimi per ogni euro investito in titoli greci senza ottenere i
benefici dei relativi Credit default swaps, i derivati assicurativi che
dovevano garantire un risarcimento in caso di fallimento e che invece,
ha già fatto sapere l’Isda, l’ente regolatore del settore, non dovranno
essere liquidati di fronte a un haircut che, per quanto imposto, resta
tecnicamente volontario. La tragedia, in fondo, è tutta in questo
paradosso. Anche se a parità di ragione il prezzo finale da pagare non
sarà lo stesso per tutti.
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