Il Governo ha varato la Legge di Stabilità. In sostanza, una ulteriore manovra lacrime e sangue da dieci miliardi. Con questi interventi, selettivi al contrario, la spending review assume
i contorni dell'accanimento terapeutico. E ancora una volta, i tecnici
dimostrano di avere molta attitudine per la contabilità nazionale, ma
poca propensione all'equità sociale. Detto questo, la Legge di Stabilità
si porta dietro due implicazioni, sulle quali si impone una
riflessione.
La prima implicazione è economica. Proprio nel giorno in cui l'Istat fotografa una caduta del 4,1% del potere d'acquisto dei salari 2
e il Fondo monetario certifica il crollo del 2,3% del Pil di
quest'anno, la manovra aggiuntiva del governo conferma che l'Italia,
come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia, ha ormai
imboccato un sentiero che conduce ad Atene, e non a Berlino. La spirale
più recessione-più rigore sta dispiegando i suoi effetti micidiali. I
tagli di spesa e i recuperi di evasione possono finanziare ben poco,
oltre al maggior fabbisogno determinato dalla caduta del denominatore
nel rapporto deficit/Pil e debito/Pil. E l'aggiustamento, per un Paese
che non può più neanche immaginare ulteriori inasprimenti d'imposta in
stile Hollande ma dovrebbe semmai cominciare a ridurre la pressione
fiscale, non può non avvenire ormai a carico del Welfare. Cioè
attraverso la riduzione ancora più spinta del perimetro di una spesa
sociale già di per sé iniqua e squilibrata.
È la via
"mercantilistica" alle correzioni di bilancio, che genera bilanci
pubblici a impatto sempre più regressivo e recessivo. Vale per oggi, ma
vale anche per domani. Stretta in questa morsa, e a dispetto di qualche
revisione fin troppo generosa del remore, l'Italia non vedrà alcuna
ripresa nel 2013. Se ne riparla nel 2014, se va bene. E se non ci fosse
da piangere, farebbe sorridere la comicità involontaria di chi, nella
Legge di Stabilità appena varata, ha inserito anche una norma per il
risparmio energetico denominata "Operazione cieli bui". Mai formula fu
più azzeccata, non solo per declinare qui ed ora un tocco di "austerity"
da Anni Settanta, ma anche per tracciare l'orizzonte generale del Paese
nei prossimi due anni.
La seconda implicazione è politica. Al
di là delle apparenze e delle esigenze imposte dalla fase, tra il
governo Monti e i partiti che lo sostengono c'è un corto circuito sempre
più evidente. A Pd, Pdl e Udc che vagheggiano suggestive riscritture
bipartisan della riforma previdenziale della Fornero, il premier
contrappone l'irriducibile coerenza dei saldi contabili e l'inevitabile
cogenza degli impegni europei. È in atto uno strano paradosso: mentre i
leader di una politica in affanno nel centrosinistra e in disarmo nel
centrodestra lanciano Monti per la legislatura che sta per cominciare,
lo contestano nella legislatura che deve ancora finire. Ma forse c'è una
via d'uscita anche a questo paradosso. Il Professore, grazie al suo
prestigio e alla sua autorevolezza, ha evitato al Paese la bancarotta, e
lo ha riportato agli onori del mondo. Ma nella sua azione di governo ci
sono luci ed ombre, cose ben fatte e occasioni mancate. Come dimostra
l'ultima stangata decisa in perfetta autonomia dall'Eliseo, per gli
Stati di Eurolandia le "condizionalità" del risanamento concordato con
la Ue, presenti e future, riguardano la fedeltà complessiva al patto
comunitario, non l'adesione acritica a un unico modello di sviluppo.
Investono l'equilibrio complessivo di bilancio, non le azioni specifiche
necessarie per raggiungerlo. in questa chiave, quella che si sta
innescando intorno alla cosiddetta "Agenda Monti" rischia di essere una
polemica inutile e dannosa.
Le politiche economiche sono frutto
di una scelta, non di un destino. L'Italia ha un solo vincolo
invalicabile (ormai anche di rango costituzionale) che chiunque vinca le
elezioni dovrà ricordare e rispettare: non si può finanziare più una
sola spesa in deficit. Tutto il resto è politica, dunque arte del
possibile. Anche dopo il 2013, vero valore aggiunto è Monti, non la sua
Agenda.
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