(da La Repubblica, di Massimo Giannini) ...e speriamo abbia ragione!
Un partito in fuga. Dai problemi da risolvere, dalle scelte da compiere,
dalle responsabilità da assumere. Questo è oggi il Pdl, che in un
giorno solo vive una doppia crisi di nervi. Berlusconi si sottrae al
rito canonico, officiato da Bruno Vespa, sul quale ha costruito in tv le
sue svolte e i destini della Seconda Repubblica. Alfano si ritrae dal
vertice di maggioranza, convocato dal presidente del Consiglio, insieme a
Bersani e Casini. Due "indizi", che bastano a fare una prova: il Popolo
delle Libertà non sa dove andare, e ormai fugge soprattutto da se
stesso.
La rinuncia al tele-comizio nel confortevole salotto di
"Porta a Porta" nasce dall'insostenibile leggerezza della leadership di
Alfano. A dispetto delle smentite postume, il delfino è ormai marchiato a
fuoco dalla maledizione del "quid". "Angelino", malgrado la sua buona
volontà, è condannato a rimanere il segretario del Cavaliere, più che il
segretario del partito. Per questo Berlusconi è costretto a declinare
l'invito di Vespa. Se fosse andato, sulla stessa poltrona che tra una
settimana accoglierà il segretario del Pd, avrebbe sancito plasticamente
e politicamente l'inutilità di Alfano. Un'umiliazione troppo pesante, e
francamente immeritata. Ma il passo indietro non basta a nascondere
l'evidenza: il "vecchio" non potrà mai fare solo il padre nobile, il
"giovane" non riesce ancora a fare il leader. Risultato: il Pdl non ha un vero capo, riconosciuto e rispettato. Anche per questo sbanda, si lacera e si logora tra correnti e rese dei conti.
Il
gran rifiuto di Alfano a partecipare alla cena organizzata dal premier
insieme a Bersani e Casini si può leggere nella stessa chiave. Ha una
sottile implicazione mediatica: agli occhi dell'opinione pubblica, serve
a scaricare sul rapporto governo-maggioranza le tensioni interne al
Pdl. Ma ha anche una forte implicazione politica. È un altolà del
Cavaliere al Professore. Un avvertimento preventivo a non intervenire
sui due nervi scoperti del berlusconismo da combattimento. La giustizia e
la Rai.
L'incontro della "maggioranza tripartita" non aveva un
ordine del giorno prefissato. Ma se riuscirà a chiudere entro marzo la
riforma del mercato del lavoro, Monti potrebbe procedere subito dopo con
un rinnovamento ai vertici del servizio pubblico e un affondo sulla
giustizia e sulla legge anti-corruzione. Esattamente quello che il
Cavaliere non vuole. Per questo, armando il suo "sicario", ha giocato
d'anticipo. Per lui quello di Monti è e deve rimanere un "governo di
scopo". È nato nel fuoco della battaglia finanziaria. Finché si occupa
di questo, va tutto bene. E tutto serve a dimostrare l'indimostrabile,
cioè che in economia il montismo è la prosecuzione del berlusconismo con
altri mezzi. Non appena il premier accenna ad allargare il suo campo
d'azione, com'è logico e giusto, nella destra in piena decomposizione
risuona l'allarme. Il Cavaliere "di governo" si eclissa, e torna sulla
scena il solito Cavaliere "di lotta" che strepita, intima e minaccia.
Convinto che per Monti alcuni temi siano "materia indisponibile".
Processi e televisione: gli affari personali dell'uomo di Arcore, da
anteporre sempre e comunque agli interessi generali del Paese.
Ancora
una volta, la pretesa berlusconiana è irricevibile. E Monti farà bene a
non riceverla. Il Pdl è un esercito in rotta. Il suo "Conducator" ha
perso il tocco magico. E ora sta per perdere le amministrative di
primavera: secondo l'Osservatorio di Roberto D'Alimonte, senza la Lega
può cedere alla sinistra tutti i nove grandi comuni del Nord dove si è
già votato anche alle regionali del 2010. In queste condizioni, con un
partito che non c'è più e che non può giocare la carta delle elezioni
anticipate, Berlusconi non ha armi per ingaggiare altre guerre. Può solo
sperare di sedersi al tavolo nel 2013, nella Yalta impropria di una
Grande Coalizione. La sua pistola fa rumore, ma ormai spara solo a
salve.
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