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In piena bancarotta politica, e a un passo dalla bancarotta finanziaria, 
l'Italia trova finalmente una via d'uscita. Non solo dal suo mercoledì 
nero, ma soprattutto dal suo Ventennio berlusconiano. Grazie 
all'accelerazione impressa alla crisi dal presidente della Repubblica, 
il Paese evita quella che stava ormai diventando una suicida "via 
patriottica al default". 
Il Cavaliere impegnato a pasticciare 
sul maxi-emendamento e sulla sua "lettera d'intenti" alla Ue, con l'idea
 malcelata di trasformarla nel rivoluzionario "manifesto liberale" sul 
quale giocarsi la campagna elettorale, e di brandirla come una clava 
contro la solita sinistra "nemica" delle riforme volute dall'Europa. La 
cerchia ristretta dei suoi "lieutenant", chiusi nel bunker a imprecare 
contro il "direttorio franco-tedesco" come un tempo si malediva la 
"perfida Albione". 
I suoi corifei asserragliati in tv e nei 
giornali di famiglia, intenti a inveire contro gli "speculatori" come un
 tempo si vaneggiava della "congiura giudo-pluto-massonica". E nel 
frattempo i mercati all'opera, per celebrare il fallimento dell'Italia 
con un funerale di "rito greco". Fuga di massa da Bot e Btp, spread e 
premio di rischio alle stelle, insolvenza del debito sovrano. Roma come 
Atene, appunto. E Berlusconi come Nerone: insieme a me, bruci la città...
Al
 termine di una giornata drammatica per i nostri titoli di Stato e la 
nostra Borsa, Giorgio Napolitano è forse riuscito a scongiurare il pericolo. Con due mosse perfette, per metodo e per merito. La
 prima mossa, di fronte all'onda sempre più alta della tempesta 
finanziaria, è stata quella di sgombrare il campo politico dalle 
trappole e dalle furbizie con le quali il presidente del Consiglio lo 
stava "inquinando". Il comunicato con il quale il Quirinale ribadisce 
che "non esiste alcuna incertezza" sulla scelta del premier di 
"rassegnare le dimissioni" dopo l'approvazione della legge di stabilità 
sembra solo una ripetizione del testo diffuso il giorno prima, subito 
dopo il faccia a faccia con il Cavaliere sul Colle. 
In realtà 
questa sottolineatura serve da un lato a inchiodare Berlusconi a un 
impegno solenne assunto di fronte al Capo dello Stato e alla nazione, 
sottraendogli ogni margine per tattiche dilatorie, manovre di palazzo o 
compravendite di parlamentari. Dall'altro lato serve a rassicurare i 
mercati, attoniti di fronte ai riti esoterici e ai bizantinismi del 
teatrino italiano, sul fatto che il ciclo politico del Cavaliere si è 
realmente concluso e che il suo governo, ormai del tutto privo di 
credibilità interna e internazionale, è davvero al capolinea.
La 
seconda mossa, di fronte all'offensiva della destra sulle elezioni 
anticipate, è stata quella di nominare senatore a vita Mario Monti. Cioè
 proprio il candidato del quale si parla da giorni, come possibile 
premier di un governo tecnico, di emergenza nazionale, di salute 
pubblica o di larghe intese secondo le diverse formule possibili. Una 
scelta di alta classe politica. Sorprendente nella sostanza, 
ineccepibile nella forma. È certo che Napolitano aveva in animo da tempo
 di "promuovere" a Palazzo Madama uno degli italiani più stimati nel 
mondo e più celebrati in Europa. 
Ma non può sfuggire a nessuno 
il significato, non solo simbolico, di questa decisione, presa proprio 
in questo momento. Il presidente eleva un grand commis al rango di 
grande saggio della Patria. Trasferisce un autorevole ex commissario 
europeo nella prestigiosa "riserva della Repubblica" della Camera Alta. 
In questo modo, crea le condizioni per la sua trasformazione: Monti non 
ha più solo un ruolo professorale, ma acquisisce una funzione 
istituzionale. Insomma, non è più solo un "tecnico", ma ora è a tutti 
gli effetti un politico.
La portata di questa "metamorfosi" è 
evidente. Se Monti riceverà l'incarico di formare un nuovo governo già 
domenica prossima (come sembra probabile e auspicabile), la sua 
investitura avrà una forza completamente diversa. Dal punto di vista 
politico, Napolitano disarma preventivamente Berlusconi e Bossi, che 
vedono come il fumo negli occhi un governo "tecnico": se nascerà (e noi 
speriamo che nasca) quello di Monti sarà un governo politico. 
Non
 è un caso che tra molti esponenti del Pdl, anche a causa del laticlavio
 senatoriale, la pregiudiziale contro l'ex rettore della Bocconi 
comincia a cadere. Dal punto di vista finanziario, Napolitano avverte 
implicitamente i trader e gli investitori, che da questa mattina 
potrebbero disfarsi ancora di Bot e Btp su tutti i mercati: smettete di 
vendere, perché l'Italia ha già un nuovo premier in pectore, ed è la 
personalità più apprezzata dalla "business community".
Non è 
detto che questo basti, a placare la "fame" degli speculatori. Ma è una 
condizione necessaria, anche se non ancora sufficiente, a ridare 
speranza e credibilità al Paese. Perché l'operazione riesca, il nuovo 
governo dovrà avere una base parlamentare ampia. Non può essere la 
riedizione, uguale e contraria, della ridotta forzaleghista che ha 
sgovernato l'Italia in questo ultimo anno, con una maggioranza politica 
inesistente e una maggioranza aritmetica inconsistente. Servono grandi 
riforme, e grandi riforme esigono grandi numeri. 
Nel 
centrosinistra (a parte Di Pietro, pronto a portare non si sa dove il 
suo populismo autoreferenziale) l'asse Pd-Terzo Polo ha condotto al 
meglio le ultime battaglie, dentro e fuori dal Parlamento, e ora sembra 
pronto a fare la sua parte. Nel centrodestra (a parte la Lega, pronta a 
tornare allo stato brado, magico e pre-politico della Padania Libera) il
 Pdl rischia l'annientamento, orfano com'è del suo padre-padrone. 
Sarebbe auspicabile che fosse a sua volta pronta a fare la sua parte 
almeno quella nutrita schiera di parlamentari che non vogliono "morire 
berlusconiani".
Continuare a vellicare l'idea delle elezioni 
anticipate, e ad evocare l'immagine a effetto del "voto sotto la neve", è
 una boutade situazionista buona per il solito salto nello staraciano 
"cerchio di fuoco". Ma è una pura follia per chiunque abbia conservato 
un po' di buon senso e di consapevolezza di quanto sta accadendo e può 
ancora accadere in Eurolandia e sui mercati finanziari. È ora che 
Berlusconi e i figuranti provinciali e autarchici della sua ex 
maggioranza riconoscano di fronte al Paese a quali pericoli lo hanno 
esposto. 
Il default, nonostante i fondamentali dell'economia non
 lo giustifichino, è purtroppo una prospettiva più realistica di quanto 
si immagini. Sui mercati c'è la convinzione diffusa che l'Italia non ce 
la faccia. Le grandi banche commerciali (dalla Rbs alla Ubs) dimezzano 
il loro portafoglio di titoli italiani. Le grandi banche d'affari (da 
Goldman Sachs a Jp Morgan) smobilitano le posizioni in Bot e Btp. Sul 
mercato, da giorni, è attiva solo la Bce. Ma ormai non basta. Sulla 
"carta italiana" domanda e offerta non si incontrano più. Chi prova a 
vendere non trova compratori.
È il segno che siamo vicini al 
punto di non ritorno. Tra gli operatori (da Barclays a Witan Investment 
Trust) si moltiplicano quelli che considerano addirittura inutile, a 
questo punto, il ricorso alle fatidiche "misure d'urgenza" invocate da 
mesi dalla Ue, dall'Fmi, dalla Bce. Ormai potrebbe non servire più né un
 maxi-emendamento né un decreto legge. E potrebbe non farcela nemmeno un
 premier del calibro di Monti. Se la crisi di liquidità diventa crisi di
 solvibilità, tutto diventa inutile. Per questo, di qui al cruciale 
weekend che si avvicina, l'Italia non può e non deve sbagliare un solo 
passo, di quelli che dovrà compiere per uscire dal vicolo cieco nel 
quale Berlusconi l'ha cacciata in questi tre anni e mezzo.
Ci 
aspetta una lunga traversata nel deserto, fatta di sacrifici, di sudore e
 di sangue. Ma ora che la svolta è vicina, dobbiamo sapere due cose. La 
prima: nonostante tutto, l'Italia è un grande Paese che ha in sé le 
energie e le risorse per rialzarsi. La seconda: la responsabilità più 
grande, del declino italiano di questi anni, pesa sulle spalle del 
Cavaliere. Dobbiamo ricordarcelo, mentre ci accingiamo a consegnarlo, 
finalmente, alla notte della Repubblica.
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