lunedì 14 marzo 2011

Giappone: città scomparse

(da Repubblica: un reportage agghiacciante sullo tsunami giapponese)



MINAMISANRIKU - La città scomparsa dovrebbe essere qui sotto. Nessuno si rassegna a crederci, ma è così. I piedi affondano in un pantano nero, impastato di sabbia, di petrolio, di acqua salata, di travi in cemento e di pesci coperti da insetti.

Potrebbe essere uno stagno che si sta prosciugando, percorso da odori adesivi, usato come discarica. Invece si calpesta Minamisanriku e non si vorrebbe, temendo di fare male a qualcuno. Pochi soccorritori sono arrivati qui e la prima volta se ne sono andati, convinti che il porto peschereccio abitato fino a venerdì da diciassette mila persone si trovasse altrove. Sono tornati oggi, spinti dai sopravvissuti del posto e dal Gps e adesso non hanno dubbi. Questo deserto coperto ora dai gabbiani, da cui affiora una gamba piegata, si apre dall'oceano verso l'interno per nove chilometri.

Il livello del Pacifico che si è trasferito sopra la costa nord - est dell'isola di Honshu, resta alto per almeno due chilometri. Non una barca si è salvata, la spiaggia è attraversata da sabbie mobili e nessuno va a recuperare quell'arto, divenuto il segnale della catastrofe. Qui sorgevano migliaia di edifici, la darsena, strade, scuole e un piccolo ospedale. Se davvero Minamisanriku è questo, non c'è speranza. Da tre giorni non c'è traccia di almeno metà della popolazione. Diecimila abitanti sono scomparsi in pochi minuti, travolti dalla prima, grande onda scatenata dal sisma.

Dopo 72 ore si possono trovare persone vive sotto le macerie di un terremoto, non sotto il fango di uno tsunami. Chi si è salvato, nei quartieri in collina, è accampato per strada e guarda l'impressionante scia orizzontale, simile a quella verticale aperta da una valanga. Il livello del terreno si è abbassato e l'impressione è che ora sia inferiore a quello del mare. E per questo che Minamisanriku è stata spazzata via e che gli aiuti non sono ancora arrivati. Le strade sono interrotte, tutto deve essere trasportato a mano. Manca cibo, non c'è acqua potabile, la corrente elettrica è sospesa. Non si può nemmeno fuggire: le pompe, tre chilometri all'interno, non funzionano e il carburante è esaurito. Questa città inghiottita è l'ultimo simbolo della catastrofe che s'è abbattuta sulle prefetture orientali di Miyagi, Iwate e Fukushima, a nord di Tokyo. Si comincia però a prendere atto con orrore che è solo una delle tante, uno tra i centinaia di luoghi del Giappone che non c'è più. Dopo un giorno in viaggio lungo la costa inghiottita dall'oceano, ormai deserta e muta, non ha senso tentare di contare i morti e i dispersi.

Diecimila? Il doppio? La popolazione sostiene che anche trentamila risulteranno pochi. Più rapido contare i superstiti e i feriti e sperare che molti siano riusciti a scappare all'interno e che non riescano ora a dare l'annuncio della loro salvezza. "Quando è finita la grande scossa - dice Natsuo Kawabata, avvocato a Minamisanriku - mi sono precipitato verso casa. Ho visto una trentina di auto in colonna, che acceleravano sulla strada. Alle loro spalle saliva l'onda. L'acqua si avvicinava, travolgeva le case e le auto acceleravano ancora. Una dopo l'altra, in mezzo minuto, sono state inghiottite tutte. Nella quarta c'erano mia moglie e mio figlio Hojo di 7 anni. Era al telefono con me è gridava "è fatta, siamo salvi"". Se una parte dell'Honshu non esiste più lo si deve anche alla straordinaria qualità delle costruzioni antisismiche, che hanno tradito gli abitanti. Dopo la scossa delle 14.46, l'assenza di crolli ha indotto la gente a illudersi di aver subìto un evento straordinario, ma non distruttivo. L'allarme tsunami è stato lanciato nove minuti più tardi, diciannove prima che l'oceano si alzasse di venti metri sopra la costa. L'onda si è abbattuta su una popolazione riversata per strada, che stava cercando di capire cosa fosse successo, nell'impossibilità di seguire gli appelli alla fuga lanciati in tivù, spenta dall'interruzione della corrente elettrica. La maggioranza ha ignorato il pericolo del Pacifico, o ne ha sottovalutato la velocità, venendo strappata via con l'elmetto d'emergenza sul capo. 

E' questo eccesso di sicurezza nella tecnologia, l'abitudine alla compagnia di una terra qui in costante movimento, ad aver potenziato l'effetto del peggior terremoto della storia nazionale. Percorrendo i quattrocento chilometri della costa inabissata, rimasti in gran parte privi di soccorsi a causa dell'emergenza radiottiva nella centrale di Fukushima, ci si rende conto così che il peggio potrebbe non essere stato ancora scoperto. Sendai, il capoluogo della prefettura di Miyagi, oltre un milioni di abitanti, resta sommerso dall'acqua ancora per metà. Sono migliaia gli edifici distrutti, gli evacuati da tre giorni non mangiano e non bevono, l'aria della notte scende a quattro gradi sotto zero e solo pochi possono ripararsi con una coperta asciutta. "Ci mancano farmaci essenziali e sangue - dice Mikiko Dotsu, capo squadra di medici senza frontiere - e l'assenza di energia impedisce di operare. Centinaia di persone, in particolare i bambini e i vecchi, devono essere portate via di qui al più presto, con gli elicotteri, o sulle navi". La scuola elementare di Natori è adibita a obitorio: all'interno, non coperti da lenzuoli, centinaia di corpi, forse mille. In un angolo vengono riposte le salme irriconoscibili, i resti considerati umani. Più si risale a nord, dal cuore dell'epicentro, è più lo scenario assume realmente il profilo di una non narrabile apocalisse. Anche la città marinara di Matsushima aveva diciassettemila residenti. E' ridotta ad un villaggio di poche case naviganti nel mare e del grande mercato del pesce non c'è traccia. Gli abitanti, sotto shock, raccontano che lo tsunami dell'11 marzo passerà però alla storia per aver sottratto al mondo l'arcipelago di Matsushima Kaigan. 

Erano 260 piccole isole, decine di penisole verdi tuffate nel Pacifico, tra gli scenari naturali più stupefacenti del Giappone. Rocce nere, torri di tufo, sabbia come neve, sorgenti di acqua bollente, borghi antici e una miriade di templi buddisti e scintoisti invasi dalla pace. Dalla costa oltre Sendai occorreva un'ora di barca per entrare nel paradiso delle scimmie e dei cervi, popolato di oltre duecentomila persone. Dalla terraferma non si scorgono più isole e i pescatori assicurano che l'arcipelago è stato sommerso. A Ishinomaki, sull'isola di Miyato, abitano 166 mila persone, di cui non si ha notizia. Metà della città risulta distrutta. I pescatori dell'isola di Kinkazan, il "fiore d'oro" dell'Honshu, non trovano più decine di altre isole, rimaste sotto il livello del mare. Il censimento del disastro è ostacolato dalla distruzione dei porti e di migliaia di imbarcazioni. L'arcipelago di Matsushima è totalmente isolato da venerdì e anche il laboratorio marino dell'università di Tuhoku, nella città di Onagawa, non dà segni di vita. Di certo la penisola di Ojika, l'isola di Oshima e Fukuura, si trovano oggi sotto il livello dell'acqua ed è impossibile sapere quanti siano riusciti a mettersi in salvo, come abbiano potuto riuscirci. Le isole hanno fatto da frangiflutti contro la forza del mare, proteggendo un tratto di terraferma, ma autocondannandosi a scomparire. 

Lungo la costa, che si presenta oggi come un luogo naturale totalmente cambiato e irriconoscibile, sono però migliaia gli edifici crollati anche a Shiogama, 59 mila residenti e il più grande mercato del pesce della prefettura di Miyagi. Centinaia di persone mancano a Iwanuma, dove la gente resta accampata sui tetti. A Rikuzentakata, nella prefettura di Iwate, sabato si segnalavano quattrocento corpi restituiti dallo tsunami. Le squadre di soccorritori, giunte da Taiwan, affermano che nella spianata di fango ce ne potrebbero essere almeno altrettanti. A Rikuzen Takata, cittadina di ventottomila persone, gli edifici demoliti dallo tsunami sono oltre ottomila. Centinaia più a sud, a Minami Soma. La realtà che un Giappone stremato non vuole ancora accettare è l'uscita dallo tsunami con una mutilazione profonda e devastante. Tra la capitale e Kesennuma, apice nord estremo della devastazione, centinaia di centri abitati non esistono più. I porti distrutti sono decine, migliaia di imbarcazioni bruciate e affondate. La pesca rappresenta il 15% del pil nazionale e i danni economici si profilano immensi. In questa fascia di terra scossa, in gran parte impercorribile in auto e non raggiunta dalla macchina dei soccorsi, si aggirano ora oltre 300 mila sfollati, alla disperata ricerca di un numero imprecisato di morti e di dispersi. La maggioranza della popolazione, poco meno di tre milioni di individui, ha perduto tutto e lotta per trovare acqua, cibo e qualcosa con cui difendersi dal freddo. Gli aiuti sono lenti e insufficienti: 100 mila uomini si perdono in un deserto di macerie e rischiano di trasformarsi a loro volta in profughi.

Solo oggi iniziano a delinearsi i contorni di una tragedia che nelle prime ore, dopo la scossa da 9 gradi della scala Richter, era sembrata miracolosamente scongiurata. Si è detto che solo il Giappone poteva resistere ad un simile squasso: stiamo scoprendo che non è andata così, che nemmeno il Sol Levante è stato più forte di una natura che si illudeva di aver sottomesso. "L'onda saliva - dice Yukio Hokusai, sopravvissuto di Rikuzen Takata - e il primo piano di casa è stato allagato. Siamo usciti sul tetto e anche i nostri vicini, nell'edificio a fianco, erano lassù. Un cantiere impediva al fango di scorrere e la montagna di melma saliva. Ho visto la famiglia Endo sparire in un gorgo nero, mentre il figlio più piccolo si aggrappava all'antenna satellitare". Di tutto questo, assieme al dolore, nel Nordest del Giappone resta solo la paura: di un'altra, definitiva scossa, di una contaminazione nucleare più alta di 400 volte rispetto al normale, dell'abbandono, di essere rimasti senza futuro. Nel pomeriggio al largo di Ebina ha attraccato la portaerei Usa "Ronald Reagan". I marines che distribuiscono razioni di pane e di riso a chi si prepara per la terza notte all'addiaccio, hanno la maschera sul viso. I sopravvissuti si inchinano, ringraziano e subito si coprono la bocca con la mano.

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