martedì 22 marzo 2011

IN COSCIENZA E NEL DUBBIO

DI CONCHITA DE GREGORIO
È davvero vergognoso e indicativo della miseria autoreferenziale in cui certi soloni sono precipitati, il dibattito che si sta sviluppando in queste ore a proposito del “pacifismo a corrente alternata” della sinistra italiana: sostengono, i commentatori durissimi e purissimi, che non ci sia tanto da discutere, che si debba dire sì o no, mostrarsi coerenti e in questo caso rallegrarsi con se stessi oppure autodenunciare la propria incoerenza e di conseguenza vergognarsi. Vorrei opporre a questo tribunale in servizio permanente effettivo alcuni dati di fatto ed invitarli ad esercitare insieme a noi la pratica del dubbio, sempre auspicabile e benefica nel cammino verso la comprensione delle cose. Riprendo, nel farlo, dal punto in cui ci siamo lasciati: l'editoriale di due giorni fa, scritto alla vigilia della decisione (francese) di attaccare Gheddafi, decisione a cui il governo italiano si è prontamente accodato fornendo basi e aerei di supporto. “Siamo passati dal baciamano all'elmetto”, scrivevo. Dal baciamano ai Tornado. L'amico Gheddafi in una frazione di secondo è diventato nemico. Un voltafaccia, dicevo, di cui “l'amico Muammar potrebbe risentirsi in forma personale: la categoria del tradimento, ai suoi occhi, potrebbe comprendere l’Italia intera”. Quarantott'ore dopo lo ha detto in forma esplicita: italiani traditori. Dice italiani ma pensa solo a uno: al suo caro amico. Il punto mi pare ancora questo, non si scappa da qui: è tragico e grottesco vedere La Russa in divisa da guerra, su mandato del premier, sciorinare i nomi degli aerei che sta facendo decollare all'attacco del nemico. Quello stesso nemico al quale fino all'altro ieri abbiamo venduto le armi, a cui abbiamo baciato l'anello, che abbiamo fatto accampare con le sue tende nei giardini di Roma fornendogli ragazze e cavalli per il suo circo, con quale abbiamo fatto affari pubblici e privati in materia di gas e di tv, i cui soldi abbiamo chiesto per le nostre imprese, tante. Di cui abbiamo sopportato i ricatti e le minacce, con il quale abbiamo firmato un trattato vergognoso, in materia di immigrazione. Che Gheddafi fosse un dittatore sanguinario non è notizia di giovedì scorso. 

La sinistra tutta e questo giornale in specie, molto spesso in assoluta solitudine, ha denunciato il pericolo e la vergogna di quella “amicizia”, ha chiarito la natura degli affari dei due soci, ha mostrato le foto dei centri di detenzione libici – autentici lager – ha pubblicato documenti inoppugnabili circa la violazione di diritti umani in Libia e ha chiesto che si mettesse un freno al delirio del Raìs. La politica poteva farlo con molti mezzi. Economici, diplomatici. Un ventaglio che va dall'embargo alla cessazione dei traffici più o meno trasparenti, delle compravendite e del business fino ad un'azione di pressione, di sostegno umanitario e di ponte culturale con i dissidenti al regime, oggi rivoluzionari. Non l'ha fatto: questo governo è stato l'ultimo a prendere le distanze da Gheddafi e il primo a sostenere Sarkozy. Di subalternità in subalternità, eterno vassallo, al servizio ieri del dittatore libico ieri sera, dell'assertivo francese stamani. Una prova di governo indecente. Una politica estera disastrosa. 

Solo affari, solo soldi.
Ciò detto, il dittatore folle sappiamo che è folle – noi da molto tempo, diciamo pure dal principio – che è nemico di ogni libertà (di opinione, di stampa, di voto, di religione), che minaccia di fare strage di civili e lo farà, lo sta facendo. I ribelli sono sotto le sue bombe e implorano aiuto, chiamano il mondo, ci invocano di non lasciarli soli a morire: la vendetta del Raìs, se dovesse piegare la rivolta, sarà (sarebbe) feroce.

Ci è chiarissimo che le ragioni autentiche dell'intervento militare in Libia non sono di natura umanitaria: le ricchezze energetiche, gli assetti di potere dei blocchi mondiali, persino l'ansia da prestazione del presidente francese. Tutto chiaro. E l'articolo 11 della nostra Costituzione, e il diritto all'autodeterminazione. Ma il rispetto della sovranità nazionale della Libia e il ripudio della guerra come si sposa, nelle coscienze durissime e purissime, con l'invocazione di aiuto rivolta proprio a noi da quella gente su cui Gheddafi reclama il diritto di disporre facendone se crede, visto che è roba sua, carne da macello? Non si doveva arrivare alla guerra: giusto. Bisognava combattere Gheddafi prima e con altre armi: sacrosanto. Lo chiediamo da anni. Questo governo invece lo ha trattato da statista e ha occultato i suoi crimini. Oggi lo combatte, ed è un voltafaccia disgustoso. Spara contro le armi che gli ha venduto. 

E noi, la sinistra, ora che le vittime della dittatura hanno aperto i cancelli dei lager che abbiamo denunciato e sono in piazza sotto le bombe a dirci aiutateci – ora che la guerra al Raìs è cominciata, insomma, e certo non l'abbiamo scatenata noi – cosa dovremmo fare, davanti a quel popolo? Parlargli di principi mentre il despota li massacra, rimboccarci le coperte e andare a letto? Lasciar fare ai francesi e agli inglesi, che ci pensino loro? Odio la guerra, e la ripudio. Odio essere rappresentata da un capo del governo che non conosce il principio di responsabilità, la diretta conseguenza delle sue stesse azioni, e che cambia alleanza in favore del vento. Vorrei che l'Italia fosse un paese dignitoso, vorrei che sapessimo tutti assumere decisioni difficili: dubitando e poi decidendo, limitando al massimo i danni. 

Vorrei stare dalla parte di chi ha bisogno con gli strumenti che servono, con senso della misura e del limite, senza offendere e senza ipocrisia, sporcandoci le mani come sempre accade quando si tratta di metterle nel sangue e nel fango dei feriti. Che le mani pulite sono una colpa se qualcuno sta morendo qui accanto. Certo coi Tornado è difficile. Sono giorni orribili ma bisogna starci dentro. Non so dire come, lo impareremo. Certo nessuno, nemmeno chi si sente in salvo nel suo tribunale dispensatore di sentenze, potrà restarne fuori.


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