Nella guerra di slogan e di manifesti, di fischi e di applausi che ha segnato, purtroppo, anche il 25 aprile due figure assumono ancora una volta il rilievo di simbolo per la nazione: per quelle parti dell’Italia e per quegli italiani scelgono di identificarsi nell’una o nell’altra. Silvio Berlusconi ha brillato per la consueta assenza (il discorso di Onna, due anni fa, era evidentemente un evento estemporaneo) dalle celebrazioni per la Festa della Liberazione. Si è fatto gli affari suoi, in privato, salvo poi letteralmente esplodere a sera con una nota di palazzo Chigi che annuncia la partecipazione italiana ai raid della Nato in Libia. Bisogna riconoscergli una capacità di adattamento non comune: dal “non disturbiamolo” al “bombardiamolo” in meno di due mesi. La Lega, a quanto pare, l’ha presa malissimo. Staremo a vedere.
Giorgio Napolitano, invece, era al lavoro dalla mattina. In pubblico. Nel giorno della Liberazione, il presidente ha chiamato alla responsabilità nazionale, ha chiesto di «non far prevalere il cieco e acceso scontro», poi ha declinato nell’attualità il significato della Resistenza: «Nonostante la distanza e la diversità dei periodi e degli eventi storici ritroviamo le forze migliori della nazione impegnate a perseguire gli stessi grandi obiettivi ideali: libertà, indipendenza, unità», ha detto.
La Resistenza è adesso, non solo memoria del passato ma disciplina nel presente. È quello di cui si diceva domenica a proposito dei giovani e dell’Associazione nazionale partigiani, della straordinaria prova che danno i ragazzi: una lezione a tutti noi.
Mi trovavo a Casole d’Elsa, ieri, un piccolo paese toscano. Il nuovo sindaco, della cui giunta fa parte un esponente di Casa Pound, ha annunciato alla popolazione che il 25 aprile si sarebbe festeggiato il 29. Ma come, hanno detto gli abitanti di Casole: il 25 è il 25, non si festeggia mica il Natale a Capodanno, ma che bischerata è? In ventiquattr’ore hanno deciso di fare lo stesso un piccolo corteo.... Dalla piazza del paese alla stele ai caduti. Si sono passati parola di porta in porta, si sono convocati alle dieci e mezzo del mattino. Si era una trentina di persone, al principio: sei o sette ragazzi tra cui Alice, la giovane segretaria del Pd locale, un paio di ventenni, un vecchio partigiano, molte donne. Col megafono uno di loro ha cominciato a leggere gli articoli della Costituzione. Nessuno aveva pensato ai fiori da portare alla stele, così una delle donne è salita in casa e ha preso dal salotto la sua pianta di anturium fioriti.
Siamo partiti un’ora dopo, con le coccarde tricolori al petto. Alice ha detto: e se cantassimo Bella ciao? Qualcuno pianissimo ha cominciato a cantare, le finestre del paese si aprivano, qualcuno applaudiva, qualcun altro scendeva per unirsi al corteo. Lido, il vecchio partigiano, cantava più forte di tutti, e I ragazzini con lui. Poi ha cominciato a cantare le canzoni della Brigata Garibaldi, e si è fatto silenzio: nessuno sapeva quelle parole. Così siamo arrivati al monumento ai caduti e Lido ha cantato tutte le canzoni di quando andava in bicicletta al rifugio sulle colline metallifere, aveva 15 anni. Poi, commosso, ha chiesto: e adesso cantiamo tutti l’inno. Con l’Inno di Mameli si è conclusa la cerimonia: una cinquantina di persone di ogni età, a cantare insieme. I ragazzi lo hanno baciato, gli hanno detto ci rivediamo il primo maggio, Lido.
Ecco, è stata una cerimonia così. E siccome c’era il sole, le colline metallifere erano lì davanti, ciascuno raccontava un aneddoto e ricordava qualcuno abbiamo salutato anche due amici che ci hanno lasciati in questi giorni, Vezio Bagazzini e Mario Di Carlo. La lezione passata di bocca in bocca, di padre in figlio è stata tramandata anche da loro, e per questo grazie.
Nessun commento:
Posta un commento