sabato 5 febbraio 2011

PREPARARE IL DOMANI

di Conchita di Gregorio

Come funamboli, camminiamo in bilico sul baratro. Applaudiamo le urla sguaiate, collezioniamo sconcezze come fossero figurine dell’album, salutiamo da lontano l’amico Mubarak asserragliato nel castello, osserviamo più da vicino la foto che mostra l’uomo alla guida del paese mostrare a dieci fanciulle le sue doti meccaniche, anche quelle un acquisto. Involgarita, impoverita, svillaneggiata e dal resto del mondo irrisa l’Italia confida nella saggezza di un vecchio presidente, ultimo garante di un tempo ormai sbiadito, quello delle regole e dell’onore, della dignità e del dovere. Il tempo in cui le donne, da sole, vedove di guerra o “vedove bianche” di uomini ingoiati dalla fatica e dal lavoro crescevano quattro, sette, dieci figli e li mandavano a scuola, insegnavano loro ad aiutarsi a vicenda e a cavarsela da soli, la responsabilità, l’impegno, la fatica. Sono ancora qui quelle donne, sono qui i loro figli ormai adulti, padri a loro volta. Non hanno tempo per la politica, o ne hanno disprezzo. 

Pensano che passerà. Qualcuno, indebolito dalla chimera costante della fortuna del bingo, della corruzione e della furbizia, ha ceduto alla tentazione. Non sarà per sempre però. È un’illusione, e sarà duro il risveglio. Durissimo per tutti. È a loro che ci dobbiamo rivolgere. Non a chi già sa: a chi non ha potuto o voluto sentire. Alle ragazze che si prostituiscono per comprare il fuoristrada dobbiamo spiegare che possono, certo, se vogliono, ma che c’è anche un altro modo per vivere. Un modo che consente di lavorare anche a 40, a 50 e a 60 anni, quando non ci sarà più nessuno a chieder loro di ballare. Dobbiamo mostrarglielo, dobbiamo pretendere un governo che lo mostri e che lo renda possibile. Che renda giustizia a chi “preferisce di no”, come preferirono di no alcuni grandi uomini e donne in passato. Dobbiamo parlare ai chi pensa non mi riguarda, a chi dice meglio un uomo oggi che una gallina domani: dobbiamo preparare il domani, invece. Dobbiamo farlo per i bambini che oggi hanno dieci anni e di cui vogliamo vedere crescere i figli qui, in Italia, non vogliamo essere orfani dei nostri nipoti. Svendere il nostro paese a chi ha più denaro per comprarlo. 

Dobbiamo, ciascuno come può, con i mezzi che ha, fare la nostra parte perché sia smascherato il tranello così efficace della propaganda che dice siete tutti uguali, siamo tutti uguali. Che riduce il pensiero ad opposte fazioni e depotenzia le parole mettendoci sopra, prima di ascoltarle, le etichette. Quelli che strillano che se un articolo de l’Unità viene letto in chiesa, in dieci cento chiese, sono i preti da cacciare: non si chiedono cosa dicono, quelle parole, non le ascoltano. Dobbiamo tornare a farci ascoltare da tutti, ed esultare ogni volta che una persona distratta o lontana da noi, anche solo una, ricomincerà ad esercitare la virtù del dubbio. Dubitare anche noi. Tornare a vivere in un paese in cui il confronto e lo scontro di idee, di proposte, di progetti e di programmi sia tale per cui ciascuno possa convincere della bontà dei suoi temi l’altro, cambiare idea se del caso, uscire dalle trincee in cui vogliono che restiamo asserragliati, indiani contro cow boy. Capire, ascoltare, parlare, ascoltare di nuovo. Il paese, l’altra Italia – quella che non passa in tv – vuole questo, ci chiede questo. Facciamolo. Le donne e gli uomini, nelle piazze e nelle case, dovunque possiamo.

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