Partiamo dall’attualità: per molti commentatori la crisi economico-finanziaria dimostra in primo luogo il fallimento del modello neoliberista. In un libro di diversi anni fa, Come liberarsi del liberismo, lei scriveva: “il trionfo del capitalismo è talmente oneroso e insostenibile che dappertutto si cerca di uscire dalla transizione liberista. Ma ci sono rimedi peggiori del male, e altri che sono inefficaci”. E sottolineava la necessità di cercare “la giusta via d’uscita”. Le sembra che la crisi sia una giusta via d’uscita? ...
Già dieci anni fa, quando pubblicai quel libro, era evidente che fosse necessario uscire dal neoliberismo. Si tratta infatti di un modello che ha progressivamente portato alla distruzione degli assetti sociali democratici, e che ha reciso il legame che univa l’economia allo Stato, negando la possibilità di intervenire con decisioni politiche efficaci per garantire condizioni economiche favorevoli ai cittadini. D’altronde, la crisi attuale non è certo un fulmine a ciel sereno, ma è la caduta, generale e definitiva, di un sistema che ha sempre prodotto “bolle” speculative e crisi continue, perché ha operato in modo totalmente irrazionale, contravvenendo perfino ai principi del capitalismo. È da tempo che denuncio l’irragionevolezza di questo modello, che ha dominato l’economia internazionale, soprattutto di stampo americano, e che separa il capitale e gli investimenti dalla realtà economico-produttiva. Parlo di contraddizione perché si è scommesso sugli utili prima ancora che ci fossero le condizioni per poterci contare, si è giocato in anticipo sui risultati degli investimenti, si è trasformato il rischio in valore commerciabile, si sono annunciati profitti senza gettare le basi per ottenerli. I prezzi in questo modo sono stati disancorati dalla produzione e legati all’“anticipazione”, alla speculazione. Come liberarsi del liberismo era un libro di critica radicale al neoliberismo, ma il neoliberismo non è morto certo a causa delle obiezioni mie o di altri studiosi. È morto, piuttosto, perché è stato incapace di resistere, politicamente e finanziariamente, ai suoi stessi giochi speculativi. In questo senso, direi che si è autodistrutto. Oggi, dunque, ci troviamo in una fase del tutto nuova, che in qualche modo rappresenta una “via d’uscita”. Il sistema liberista infatti è – quasi completamente – alle nostre spalle, perché tutti si sono ormai convinti che sia indispensabile un controllo politico e istituzionale sul sistema economico, anche se si discute sui modi di questo controllo e oltretutto alcuni possono anche risultare dannosi. D’altra parte, un controllo del genere è stato utile per iniettare nel sistema quelle risorse che altrimenti non avremmo saputo dove ricavare. I governi questo l’hanno capito. E hanno agito di conseguenza. Così ha fatto Obama. E così hanno fatto altri governi europei.
Le risposte dei governi però sono sembrate confuse e tardive: i paesi europei si sono dimostrati incapaci di elaborare una coraggiosa riposta comune, limitandosi ai salvataggi delle banche, mentre il “piano-Obama” rimane per molti, compreso l’economista Paul Krugman, insufficiente. Cosa intende quando dice che i modi del controllo politico-istituzionale sul sistema economico possono essere dannosi?
Alcuni paesi hanno fatto molto e altri meno, ma in linea generale gli Stati hanno iniettato nel sistema economico una somma di denaro inaudita. Gli interventi del Tesoro americano e delle diverse banche centrali riflettono la sempre più diffusa consapevolezza che solo attraverso l’intervento pubblico si possa evitare la catastrofe. Certo, da qui a sostenere che tale intervento possa risolvere la crisi ce ne passa, ma è comunque un elemento centrale per la disfatta dell’ideologia neoliberista. Per quanto riguardo l’Europa, il dato importante è che l’Unione europea ha dimostrato da un lato di essere incapace di assumere il ruolo che le compete come attore politico, e dall’altro di disporre di uno strumento di difesa straordinariamente efficace, il sistema di protezione sociale. A dispetto delle timidezze dimostrate, per l’Europa la crisi potrebbe dunque aprire la possibilità concreta di ristabilire una capacità di intervento politico nel settore pubblico e nell’assetto economico; e di sviluppare ulteriormente gli strumenti per controbattere eventuali nuovi attacchi dell’economia neoliberista. Tutto dipenderà, però, da come si risolverà il conflitto tra i due profili dell’Europa, quello della sicurezza sociale e quello del mercato forte. Gli Stati Uniti, invece, farebbero bene a riconoscere che il paese più potente del mondo è diventato anche quello più indebitato di tutti, a ogni livello, statale e individuale. Quanto ai rimedi peggiori del male, di fronte alla crisi attuale si potrebbe fare anche di peggio, laddove si tornasse al protezionismo nazionale.
Se si diffondesse l’idea che la salvezza sta nel protezionismo, la crisi si aggraverebbe in maniera drammatica, e rischieremmo una crisi di portata ancora più ampia, come quella del 1929, oppure una reazione come quella del 1933, quando la Germania usò le teorie keynesiane collocandole in una visione completamente radicalizzata del potere assoluto dello Stato nazionale.
Cosa dovrebbero fare gli Stati, allora? Volgere lo sguardo verso la società, e cercare di rafforzarne la capacità di resistenza, anziché pensare a rafforzare soltanto quella dell’economia nazionale. D’altronde, finora il miglior strumento di resistenza alla crisi è stato proprio il sistema di sicurezza sociale.
In Libertà, uguaglianza, diversità sostiene che “come il periodo dell’imperialismo fu seguito dal trionfo delle rivoluzioni leniniste, così, dopo un periodo di globalizzazione, potremmo assistere a una rinascita dei regimi totalitari o a un’alleanza, nei nuovi paesi industrializzati, tra liberalismo economico e nazionalismo culturale”. La sua ipotesi di allora le sembra confermata dagli avvenimenti recenti?
Credo che questa lettura sia ancora valida. Prendiamo il caso tedesco. Bismarck non era certo un dittatore, il suo governo ha adottato importanti misure di sicurezza sociale, ma si trattava comunque di un regime nazionalista autoritario, che ha goduto di una crescita economica formidabile alla fine del XIX secolo.
Lo stesso vale per la Cina, un paese non democratico, governato da un partito-Stato totalitario che dispone di un potere totalitario. Intendo dire che, se non è mai stato dimostrato che lo sviluppo economico richiede la democrazia, possiamo soltanto limitarci a sostenere che senza democrazia lo sviluppo economico può assumere forme perverse, militari, poliziesche. Finora, dunque, non ci sono esempi concreti che dimostrino che la democrazia ha permesso lo sviluppo economico. Oggi ci sarebbe bisogno di un esempio del genere, che dia nuovamente forma concreta a questo ragionamento. Il guaio è che procediamo in senso contrario: quando gli economisti ci avvertono che i grandi fattori di sviluppo sono l’educazione, la ricerca, la sanità, hanno ragione, ma noi seguiamo altri consigli, che contraddicono i primi. Come dimostra il caso della Francia, dove si stanno riducendo le spese per la sanità e, più in generale, per la sicurezza sociale, anziché concentrare gli investimenti su questi settori, che creano ricchezza. Si tratta, in un certo senso, di un ritorno al passato.
Quanto alla sinistra europea, lei da tempo ha smesso di farsi illusioni. Già diversi anni fa, infatti, scriveva che “nuovi lumi su come costruire una diversa organizzazione sociale ed economica non possono venire né dal lato della vecchia sinistra, né dalla vecchissima estrema sinistra, incapaci di proporre strategie a lungo termine e neanche obiettivi concreti di lotta”. Oggi come giudica le condizioni della sinistra nei paesi europei occidentali?
C’è poco da dire, purtroppo. La sinistra radicale, insieme al comunismo, è stata eliminata già trenta anni fa. Più recentemente, invece, è stata la stessa società democratica a naufragare. Non è un caso che la socialdemocrazia sia in crisi ovunque in Europa.
In Inghilterra è stata discreditata dalla terza via di Blair e Giddens, molto più vicina alla prima via capitalista che alla seconda socialista. Oggi è chiaro che a essere drammaticamente in crisi sono tutte le sinistre europee, più o meno: quella italiana, quella francese, la socialdemocrazia di Zapatero. Non vedo proprio quali siano i paesi per cui si possa dire che la socialdemocrazia è ancora attiva, tantomeno innovatrice. Perfino i modelli scandinavi arrancano: la Finlandia attraversa una situazione economica molto complicata, la Svezia ha diminuito di 10 punti la percentuale di entrate destinate allo Stato, dal 56 al 46 per cento. I partiti e i (pochi) governi socialdemocratici non offrono soluzioni, la sinistra comunista è sparita, e quella “gauchiste” è ancorata a soluzioni antiche, viziate da una visione del tutto irrealistica della vita economica, oltre che da risibili teorie del complotto. Rimangono, come dicevo, i meccanismi della sicurezza sociale. Anche in questo caso, però, se è vero che continuiamo a godere dell’eredità dei principi di redistribuzione introdotti con la socialdemocrazia – principi che hanno cambiato le nostre società, e che per cinquanta anni ci hanno assicurato un periodo di relativo miglioramento generale –, rimane altrettanto vero che si tratta di un modello anch’esso affaticato, che risente dei profondi cambiamenti sociali intervenuti in questi anni, dall’allungamento della vita all’abbassamento della natalità infantile. In questi anni siamo stati incapaci di combinare questa eredità con le novità introdotte dalla precarizzazione della manodopera nel settore industriale, nel secondario e nel terziario. Ora ci ritroviamo in una situazione in cui, per dirla molto semplicemente, non esiste più la base, politica, sociale, culturale, della democrazia. Della socialdemocrazia, abbiamo perduto sia l’elemento sociale che quello democratico, corroso dalla corruzione dei gruppi di influenza particolaristici ed egoistici. Non siamo in un regime autoritario, certo, ma non siamo neanche più in un regime democratico.
In Come liberarsi del liberismo sosteneva che l’uscita dal neoliberismo non si sarebbe potuta realizzare “che in avanti, verso la ricostruzione della nostra capacità di azione politica, che passa anzitutto attraverso la formazione di nuovi movimenti sociali”. Basterebbe anche uno sguardo distratto e superficiale, però, per accorgersi che in Europa mancano di protagonismo non solo le “sinistre parlamentari”, ma anche i movimenti sociali, che sembrano in risacca dopo l’affermazione dei primi anni Duemila. Ci sono soltanto sollevazioni marginali, meramente contestatrici o “difensive”, incapaci però di individuare nuovi orizzonti complessivi e di costruire strategie politiche concrete…
Quando scrissi quel libro, nel 1999, si credeva che i vecchi movimenti sociali avrebbero portato “sulle spalle” e accompagnato quelli nuovi. Non è andata così. Oggi d’altra parte i movimenti sociali non possono impegnarsi sul terreno esclusivamente economico, ma devono privilegiare la dimensione culturale, perché è su questo piano che avvengono i cambiamenti più importanti, non più su quello politico o sociale. In questo senso si possono individuare due grandi attori: quello ecologista, che si oppone al neoliberismo accusandolo di distruggere la Terra e di compromettere la nostra stessa sopravvivenza futura, e quello femminile. La lotta delle donne ha un’importanza molto maggiore e più globale di quanto si creda, perché combatte il capitalismo contestandone il punto centrale, il processo che ne garantisce il dinamismo e da cui deriva la sua brutalità: quel movimento che concentra tutte le risorse nelle mani di una élite e che declassa, dichiarandole inferiori, le categorie che non ne fanno parte. Politicamente parlando le forze che possono opporsi a questo processo di “dissociazione” non sono quelle tradizionali della sinistra o quelle sindacali, su questo siamo d’accordo. Sono piuttosto i movimenti “culturali”, che si appellano alla coscienza degli individui e che promuovono la volontà di essere i soggetti della propria esistenza, al livello personale e collettivo. È proprio questo l’elemento di straordinaria novità nel quadro attuale: i movimenti culturali sono in grado di “orientare” l’economia, e non esiste soluzione economica che non debba passare “attraverso” questi movimenti e le istanze che rappresentano. Le loro battaglie sono l’unica maniera per evitare che la caduta del sistema attuale si riveli catastrofica, e allo stesso tempo gettano i semi per costruire un nuovo modello, che non subordini più la cultura e la società all’accumulazione capitalistica, che si è rivelata autodistruttrice.
Le donne sono gli agenti principali di questa trasformazione.
Ne Il mondo è delle donne afferma, appunto, che quello delle donne sarebbe un movimento di ricostruzione culturale che “compone” i conflitti e le polarizzazioni frutto della modernizzazione europea, e che lo strumento principale di questa ricomposizione sarebbe la sessualità, e arriva a dire che “nella società postindustriale la sessualità ha la stessa importanza che aveva il lavoro della società industriale”. Cosa intende?
Il libro è il risultato delle ricerche compiute con diversi gruppi di donne: per queste donne la costruzione di sé è anzitutto costruzione di una soggettività femminile, mentre l’identità principale è quella di “donna”. Per la maggioranza, inoltre, il tema della sessualità è essenziale. Non si tratta però né di una questione di sesso, né di “genere” (una nozione, quest’ultima, che rimanda alla dicotomia uomo-donna), ma della sessualità come strumento per costruire la propria personalità a partire da principi di reintegrazione di tutti gli elementi della vita. Le donne sono portatrici di un pensiero antidualistico, che vuole ricomporre nella personalità le opposizioni binarie a cui siamo abituati (corpo e spirito, uomo e donna, ragione e sentimento), e che insiste sulla necessità che questa ricomposizione avvenga anche nella società, reintegrando tutte le categorie confinate in una situazione di “inferiorità”. Sono proprio le donne a svolgere un ruolo fondamentale nell’invenzione di questo nuovo modello culturale perché sono la categoria che è stata più fortemente dominata e marginalizzata. Per troppo tempo sono state private della possibilità di avere e affermare una soggettività: è stato impedito loro di dire “io”, di parlare in termini direttamente personali. Ma se la società maschile ci ha condotto nel baratro in cui siamo, è tempo che si affermi il diritto alla soggettività delle donne. E con esso una nuova società.
La ricerca sulle donne conferma una delle tesi che porta avanti da tempo, quella del passaggio di paradigma, dall’economico-sociale al culturale, da “Marx a Freud” per dirla fin troppo schematicamente, quella tesi secondo cui oggi i conflitti culturali sarebbero centrali quanto lo erano quelli economici nelle società industriali, come scrive ne La globalizzazione e la fine del sociale. Lei stesso ha però riconosciuto che la “fine del sociale” rischia di condurre al comunitarismo, “al prevalere delle appartenenze sulle libertà e dei retaggi sulle scelte”. Ci vuole parlare di questo passaggio di paradigma, e di come evitare il rischio del comunitarismo?
Prima dell’avvento vero e proprio della società “dei commerci”, il problema principale che le società dovevano affrontare era di natura essenzialmente politica. Per lungo tempo, e ancora con la formazione delle monarchie assolute europee, dal sedicesimo e fino al diciottesimo secolo, gli avvenimenti principali avvenivano al livello politico. Con la società industriale, il piano principale è diventato quello dell’organizzazione della produzione materiale. Con l’avvento della globalizzazione, invece, non possiamo più batterci al livello economico, politico, religioso, bensì culturale. In altri termini, se i movimenti organizzati dei decenni scorsi hanno combattuto contro il fordismo e il taylorismo, e se il movimento operaio è riuscito a ottenere qualche successo significativo su questo piano in particolare dal 1922-23, oggi è sul piano delle finalità ultime, non dell’organizzazione della produzione industriale, che dobbiamo disputare le nostre battaglie.
Si tratta di mettere in movimento ciò che di globale c’è nei destini personali, nella vita individuale. Quanto al comunitarismo, credo che oggi sia il problema centrale, come lo sono stati il leninismo e lo stalinismo nell’epoca delle lotte operaie nelle società industriali. Nel momento in cui le lotte e le contraddizioni si situano sul terreno culturale, si manifesta infatti la volontà di difendere un “monopolio” culturale, una volontà che si fa più forte laddove si coniuga con elementi religiosi, visto che la religione è per definizione monopolista. Sono tendenze ben visibili e presenti perfino in alcuni gruppi ecologisti che propongono un ritorno a una condizione “originaria”, che ripristini condizioni precedenti all’industrializzazione. In linea generale, la perdita della supremazia economica occidentale e la contestuale crescita delle migrazioni internazionali compromettono sempre più marcatamente il modello occidentale, e le idee di progresso e sviluppo che portava con sé. Oggi sono i vinti che “vanno a occupare Roma”. Ma le strade per arrivarci sono diverse. L’unico investimento positivo che le società occidentali possono fare passa dunque per un’apertura sincera e completa alla relazione con l’“altro”.
Dobbiamo abbandonare il modello di sviluppo occidentale, l’idea che sia un modello in sé completo e autosufficiente, ed elaborare invece un’immagine pluralista delle culture, mantenendo fermi due punti fondamentali: il principio razionale e quello dei diritti umani. Non si tratta di difendere un certo sistema politico, il parlamentarismo per esempio, ma di riconoscere la centralità dell’universalismo del soggetto. Per farlo, noi europei dobbiamo aprirci più consapevolmente al resto del mondo, e viceversa. Altrimenti il richiamo all’universalismo rischia di portarci, ancora una volta, al modello dell’ancien régime, o se vogliamo al modello westfaliano della guerra permanente. Una guerra permanente che la globalizzazione ha senz’altro favorito.
A proposito di globalizzazione: una delle idee ricorrenti nella letteratura accademica e giornalistica, è che gli Stati-nazione siano semplici spettatori dei processi della globalizzazione economica, alla cui direzione non avrebbero partecipato in alcun modo, e che tali processi avrebbero ormai compromesso l’efficacia delle iniziative di Stati e movimenti sociali. Lei ha scritto invece che dovremmo smetterla di “ripetere il catechismo del pensiero unico, la cui idea centrale, condivisa tanto dagli avversari quanto dai sostenitori, è che la globalizzazione dell’economia rende impotenti gli Stati nazionali e i movimenti sociali”. In che senso “la globalizzazione dell’economia non elimina la nostra capacità d’azione politica”?
In primo luogo non bisogna dimenticare che la globalizzazione è stata costruita dagli Stati nazionali; a innescare il
meccanismo della globalizzazione non sono stati singoli e potenti leader politici, ma le istituzioni dello Stato nazionale, che hanno favorito una crescente interdipendenza. Da questo punto di vista, l’idea, a un certo punto condivisa da molti, che ci saremmo ritrovati in una società mondiale, si è rivelata del tutto erronea.
Gli Stati nazionali, infatti, non sono scomparsi, ma hanno senz’altro subito una trasformazione, da cui deriva la loro marginalità nella gestione dell’ambito economico. L’aspetto principale della globalizzazione non è l’internazionalizzazione degli scambi, ma l’impossibilità di controllare il sistema economico globale, che elude ogni controllo. Seguendo la tradizione liberale o marxista, eravamo abituati a pensare che tra l’economia e la società ci fosse un legame, mentre la globalizzazione ci ha insegnato che l’economia non ha più alcun legame né con l’ambito sociale né con quello politico. D’altra parte, anche il mondo sociale è stato distrutto. È vero, come sostenevo allora, che la globalizzazione dell’economia non compromette la nostra capacità di azione politica, ma quest’azione non può più essere elaborata e definita socialmente, perché il sociale è diventato un acquitrino, una valle sperduta in mezzo alle montagne, priva di realtà propria.
La realtà ormai è quella economica, che muove le persone, concentra i profitti, aumenta le disuguaglianze sociali. Di fronte a questa realtà, dobbiamo trovare forme di resistenza che abbiano la stessa forza della globalizzazione, che provengano dal basso, non dalla difesa dei gruppi o degli interessi particolari, che rivendichino garanzie e diritti, che trasformino le vittime in soggetti. In un mondo dominato dall’economia e in cui la distruzione dell’umanità assume prospettive realistiche, come ci ricordano gli ecologisti, occorre formulare ciò che definisco come un “appello al Soggetto”, che è innanzitutto un’affermazione del diritto di ognuno alla libertà e alla responsabilità; la rivendicazione della libertà personale (non personalistica) come argine al determinismo; una difesa della vita, che significa avere diritti, garanzie, possibilità di iniziativa personale, capacità d’azione; un “appello al Soggetto” che scongiuri la dittatura comunitarista rivendicando l’universalismo dei diritti, e che, come abbiamo visto, diventi lo strumento per reintegrare nella vita sociale le categorie sociali e culturali pensate e inventate come inferiori.
Soprattutto nei periodi di crisi, si avverte il bisogno di intellettuali, di qualcuno che “faccia il punto” e che, nel caos, stabilisca delle coordinate di riferimento, che individui delle finestre di opportunità che favoriscano coraggiose aperture al futuro, scongiurando i ripiegamenti consolatori. Lei è uno degli intellettuali europei più noti e ascoltati, e si è spesso interrogato sul ruolo degli intellettuali. In Critica della modernità, per esempio, scrive che il ruolo degli intellettuali dovrebbe consistere nel liberare la creatività degli individui, “contribuire all’emergere del soggetto aumentando la volontà e la capacità degli individui di essere attori della propria vita”. Cosa intende quando scrive che “gli intellettuali dal basso, che parlano all’individuo e dei diritti dell’uomo, devono sostituire gli intellettuali dall’alto, quelli che parlano solo del senso della storia”?
La prima cosa da dire, piuttosto brutale, è che la categoria degli intellettuali è scomparsa. Per definizione, l’intellettuale è sempre stato “populista”: intellettuale era colui che, in una democrazia limitata o in un regime autoritario, parlava a nome di quelli che non avevano parola, del popolo appunto. Gli intellettuali non pensavano alla patria, alla chiesa, ma parlavano a nome della società civile, per la giustizia e per i principi universali.
E così è stato fino al periodo del movimento anticolonialista. In seguito, gli intellettuali sono scomparsi. La ragione? Perché hanno considerato il regime sovietico totalitario come una rivoluzione proletaria, popolare. Il paradosso è stato che, proprio in nome della libertà, migliaia di intellettuali, in modo del tutto miope, hanno appoggiato il regime comunista sovietico e cinese. È a quel punto che l’aura e l’influenza dell’intellettuale sono scomparse. Oggi, se ci sono degli intellettuali, sono dei suicidi: sostenendo che la vita intellettuale, artistica, scientifica è un prodotto secondario della dominazione capitalista, non fanno altro che dichiararsi “agenti del capitalismo”. Gli intellettuali, dunque, non ci sono più. Eppure, proprio ora ne sentiamo il bisogno. Il bisogno di qualcuno che non guardi il mondo dall’alto al basso, ma che parta dal basso, dai principi universalistici, dalla difesa dei diritti, della libertà, delle garanzie acquisite e, soprattutto, di quelle ancora da conquistare. Da questo punto di vista mi sembra che nonostante tutto ci sia un ritorno alla “belle époque”, quando agli intellettuali era affidato il compito di difendere le persone. Dal basso.
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